martes, 4 de diciembre de 2007

sábado, 15 de septiembre de 2007

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martes, 14 de agosto de 2007

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Denis Diderot
LA RELIGIOSA
Introduzione traduzione e note di Antonio Di Giorgio
USA CHARACTER CODING WESTERN (MacRoman)
Ai miei genitori, e ai miei fratellini,
Alessandra e Francesco
La Religieuse [1]
Nel 1796 fu dato alle stampe un romanzo che narrava la vicenda di una giovane, che tentò invano di protestare contro i voti pronunciati non liberamente: è La religieuse [2] di Denis Diderot. Già il titolo è significativo, e sottende due impostazioni. Il titolo, infatti, anticipa che l’autore descriverà due realtà: la canonica - Susanna è monaca professa e corista- e la virtù -Susanna è davvero una religiosa [3] . L’esposizione è espressa in forma di memoriale. Il romanzo è stato frainteso nel suo contenuto dalla polemica laicista dell’illuminismo, cui Diderot dedicò se stesso [4] . Non si può prendere in esame La Religiosa solo e soltanto nei suoi capitoli, ma deve essere colta tutta l’essenza della narrazione: il rischio sarebbe di fare del romanzo uno strumento di polemica, di cui si è servita la Rivoluzione del 1789 svilendone il lirismo. Diderot è un illuminista, e la polemica fu suo pane, tuttavia è lui stesso a chiarire la natura del suo romanzo [5] .
La protagonista.
Il caso di Suzanne Simonin, la protagonista, attinge ad un fatto realmente accaduto. È stata tentata l’identificazione di Susanna con una monaca [6] , ma di là da questo riconoscimento, o meglio di questo debito di Diderot alla cronaca, si deve tener presente che egli prese a cuore il caso della sorella, Catherine Diderot (1719-1746), che liberamente aveva preso i voti [7] .
L’arco di tempo in cui si snodano gli eventi vissuti da Susanna è preciso. A sedici anni e mezzo entra in convento come educanda, poi la costringono a rimanere [8] . Nel suo memoriale, Susanna descrive l’ipocrisia che ha incontrato in convento, ma non generalizza, spendendo non poche parole per elogiare le consorelle pie ed umili e l’arcidiacono padre Hébert, il suo liberatore dalle angherie di madre Cristina. Accanto a lui,i giovani preti per i quali Susanna implora Dio, e infine padre Le moine, grande indagatore dell’animo umano, che la metterà in guardia dalla corruzione della superiora di Sant’Eutropio. Susanna non vuol disonorare l’abito religioso e, mancandole la vocazione, vuole lasciarlo: questo le fa onore agli occhi del lettore. È con quello che chiameremmo il “senno di poi” che Susanna scrive, e ciò è essenziale per introdurci nella dinamica degli avvenimenti che racconterà rivivendoli. Diderot lascia i suoi interventi narrativi inserendoli su un piano specifico, costruendoli in esposizioni che la protagonista dà al suo interlocutore, il marchese di Croismare. Quando Susanna scrive è gravemente spossata dai colpi subiti durante la fuga, a cui si collega solo alla fine del memoriale
Nell’analisi del romanzo si possono cogliere due relazioni: il rapporto tra Susanna e i suoi familiari e il rapporto tra Susanna e lo stato religioso. Non vi è una sola riga di biasimo nel memoriale della Religiosa nei confronti dei suoi genitori [9] , vi sono semmai accenti di pietà. Quando la madre la fa partecipe della sua angoscia nel sentire la morte prossima, incapace di salvare la figlia dallo sdegno del marito, vediamo Susanna, nella solitudine della sua camera, cercare di capacitarsi del suo destino prestabilito:
“Mi rinchiusi nella mia piccola prigione. Riflettei su quanto mia madre mi disse. Mi inginocchiai. Pregai Dio affinché mi ispirasse. Pregai molto. Rimasi incollata col volto per terra; non si invoca mai la voce del cielo, se non quando si è risoluti, ed è raro che ella non ci consigli di obbedire (cap. IV)”.
Entrata in convento, la religiosa viene amorevolmente accolta dalla buona e saggia madre De Moni [10] , la sola priora di cui Susanna tessa l’elogio, e una delle rare monache devote e pie che incontrò nel suo cammino. Divenuta monaca corista, dopo la morte della saggia priora, il capitolo delle religiose elegge superiora suor Santa Cristina:
“Suor Santa Cristina succedette alla madre De Moni. Ah signore che abisso tra l’una e l’altra! Vi ho detto quale donna fu la prima. Questa aveva un carattere infimo, la mentalità assai ristretta e piena di superstizioni; aderiva alle novità... prese in avversione tutte le favorite di colei che l’aveva preceduta e in un momento la casa fu piena di maldicenze, d’accuse di calunnie e di persecuzioni [11] ... Fui indifferente per non dire di peggio alla nuova superiora, per il fatto che la precedente mi voleva bene. Ma non tardai a peggiorare la mia sorte (cap. VIII) ”.
Tutta la vicenda che si snoda nel priorato di Suor Santa Cristina è un’eco del giansenismo [12] .
La voce narrante, che a buon diritto chiameremmo Diderot-Susanna, dà adito a quanto la cultura raziocinante dell’era dei lumi aveva contro la religione superstiziosa e farisea. Gli intellettuali francesi attribuirono alla parola religione il senso definito da autori classici, quali Cicerone, Lucrezio e Orazio, vale a dire credenza popolare. Diderot, pertanto, prende una posizione precisa nei confronti del rapporto tra stato e chiesa. Nel Dictionnaire philosophique (1764) Voltaire analizza la voce religione in otto questioni e nella quarta afferma che “una volta che una religione è legalmente stabilita, in uno stato, i tribunali sono tutti occupati nell’impedire che si rinnovi la maggior parte che si facevano in quella religione prima che venisse pubblicamente ammessa” [13] .
Il Concilio di Trento, sulla forzatura dello stato religioso così delibera:
“Sottopone il sacro Concilio all’escomunicatione tutti a ciascuno di qualità e conditione si siano... se per qualche modo haveranno forzato alcuna vergine o vedova over altra qual si sia donna contro sua voglia, eccetto nei casi espressi in iure, ad entrar ne manasterii, over a pigliar l’habito [14] ”.
La storia di Susanna, si conclude dopo l’episodio presso il monastero di Sant’Eutropio ad Arpajon. Questa realtà apparentemente serena cela un disordine. Ordre et desordre è il binomio con cui la Religiosa definisce questa realtà.
Si potrebbe affrettatamente dire che Susanna è giudice dello stato religioso, ma questo sarebbe lontano dagli intenti di Diderot. La competenza che l’enciclopedista francese ha del cerimoniale monastico è tale da convalidare l’affermazione di sua figlia [15] : si deve tener presente, del resto, che difficilmente qualcuno, al di là delle mura claustrali, avrebbe potuto conoscere le usanze del chiostro senza avere avuto un contatto diretto.
La religiosa
La risposta del signor marchese di Croismare, se mai me ne darà, mi fornirà le prime righe di questo scritto. Prima di scrivergli, ho voluto conoscerlo. È un uomo di mondo, si è distinto sotto le armi, è anziano, vedovo, ha una figlia e due figli ai quali vuole molto bene e dai quali è adorato. Di nobili natali, è uomo colto, intelligente, di umore gaio, con un gusto spiccato per le belle arti. È soprattutto una persona originale. Mi hanno fatto l’elogio della sua sensibilità, del suo senso dell’onore, e della sua probità; e dal vivo interesse che ha dimostrato per il mio affare, nonché da tutto quello che mi è stato detto di lui, ho desunto che non mi ero affatto compromessa rivolgendomi a lui. Non c’è però da illudersi che si risolva a mutare la mia sorte senza sapere chi sono, ed è questo il motivo che mi induce a vincere il mio amor proprio e la mia ritrosia nel cominciare queste memorie in cui descrivo una parte delle mie sventure, rinunciando ad ogni pretesa di stile, con l’ingenuità dei miei giovani anni e la franchezza del mio carattere. Poiché il mio protettore potrebbe esigerlo, o potrebbe anche venirmi l’estro di portarle a termine in un tempo in cui fatti remoti potrebbero non esser più presenti alla memoria, ho pensato che il riassunto che li conclude, e la profonda impressione che me ne resterà finché vivo, basteranno a farmeli ricordare con esattezza.
Mio padre era avvocato. Aveva sposato mia madre allorché era già in età alquanto avanzata. Ebbe tre figlie. Possedeva un patrimonio più che sufficiente per accasarle convenientemente, ma per questo occorreva almeno che la sua tenerezza fosse equamente suddivisa, e non mi è certamente possibile fare di lui un simile elogio. Certamente io ero superiore alle mie sorelle per intelligenza e per l’aspetto, nonché per il carattere e le doti che possedevo, ma pareva che questo affliggesse i miei genitori. Poiché i vantaggi che la natura e il mio impegno personale mi avevano accordato diventavano per me fonte di dispiaceri, fin dalla più tenera età ho desiderato assomigliare alle sorelle per essere amata, vezzeggiata, festeggiata e perdonata come loro. Se avveniva che qualcuno dicesse a mia madre: “Avete delle figliole deliziose...” mai il complimento mi riguardava. A volte ero ampiamente vendicata di siffatta ingiustizia, ma le lodi ricevute mi costavano così care quando restavamo sole, che l’indifferenza, e persino le ingiurie, sarebbero state altrettanto gradite: quanto più grande era stato l’interesse che gli estranei mi avevano testimoniato, tanto maggiore era il risentimento dei miei una volta che se n’erano andati. Quante volte ho pianto per non essere nata brutta, sciocca, stupida, orgogliosa, con tutti quei difetti, insomma, per cui le mie sorelle meritavano la predilezione dei nostri genitori!
Mi sono chiesta allora da dove provenisse quella stranezza in un padre e in una madre che erano peraltro onesti, giusti e devoti. Debbo confessarvelo, signore? Alcuni discorsi sfuggiti a mio padre, che era violento per natura, in certi impeti di collera, l’avere associato alcune circostanze a diversi intervalli di tempo, talune mezze parole di vicini, chiacchiere di domestici, mi hanno fatto sospettare una ragione che in parte li scuserebbe. Forse mio padre nutriva qualche dubbio sulla mia nascita; forse ricordavo a mia madre una colpa commessa e l’ingratitudine di un uomo cui aveva dato troppo ascolto: come posso saperlo? Ma quand’anche i miei sospetti fossero infondati, che rischierei nel confidarveli? Voi brucerete questo mio scritto e io vi prometto di bruciare le vostre risposte.
Dato che eravamo venute al mondo a poca distanza l’una dall’altra, crescemmo tutte e tre insieme. Si presentarono dei partiti. La maggiore delle mie sorelle fu chiesta in sposa da un giovane attraente. Era bello ed aveva più criterio di quanto la sua giovane età promettesse. Mi accorsi che egli aveva posto l’occhio su di me e intuii che presto lei sarebbe stata soltanto il pretesto delle sue assiduità. Presentii tutte le afflizioni che una simile preferenza mi avrebbe attirato e misi in guardia mia madre. Fu forse la sola cosa nella mia vita che le sia stata gradita, ed ecco come ne venni ricompensata. Quattro giorni dopo, o almeno pochi giorni dopo, mi fu detto che era stato fissato per me un posto in convento, e fin dal giorno seguente vi fui condotta. Stavo tanto male a casa mia che quella decisione non mi addolorò affatto.
Così entrai a Santa Maria, il mio primo convento, tutta allegra. Nel frattempo il pretendente di mia sorella, non vedendomi più, mi dimenticò, ed essi si sposarono. Si chiama K; è notaio ed abita a Corbeil, e ha un pessimo rapporto con la moglie. La mia seconda sorella andò sposa a un certo signor Bauchon, mercante in seterie a Parigi, in via Quincampoix, e con lui si trova bene.
Dopo che le mie sorelle furono sistemate, credetti che avrebbero pensato a me e che non avrei tardato a uscire di convento. Avevo allora sedici anni e mezzo. Le mie sorelle avevano ricevuto doti abbastanza cospicue, ed io mi ripromettevo di esser trattata alla stessa maniera; la mia fantasia si abbandonava a progetti seducenti fino a che fui chiamata in parlatorio. Era padre Serafino, il direttore spirituale di mia madre, ed anche il mio. Non gli fu quindi difficile spiegarmi il motivo della sua visita: il suo compito era quello di convincermi a prendere il velo. Mi ribellai a una proposta così strana e gli dichiarai chiaro e tondo che non sentivo nessuna inclinazione per la vita monastica.
“Tanto peggio” mi disse, “perché i vostri genitori si sono spogliati di tutto per le vostre sorelle e non vedo proprio che cosa potrebbero fare per voi nelle strettezze in cui sono ridotti a vivere... Riflettete, signorina: dovete entrare per sempre, in questa casa oppure andarvene in qualche convento di provincia dove vi si riceverà per una modica pensione e dal quale uscirete soltanto alla morte dei vostri genitori che può essere ancora lontana...”
Mi risentii con molta amarezza, versai fiumi di lacrime. La superiora era già al corrente di tutto e mi aspettava al ritorno dal parlatorio. Ero in disordine da non poter spiegare. Mi disse:
“Ma che cosa avete, mia cara figliola? [Sapeva meglio di me che cosa avessi.] In che stato siete! Non si è mai vista una disperazione simile alla vostra. Mi fate tremare. Avete forse perduto il vostro signor padre o la vostra signora madre?”
Fui tentata di risponderle gettandomi tra le sue braccia: “Piacesse a Dio!...,” ma mi contentai di esclamare: “ahimè! non ho né padre, né madre; sono una sventurata che detestano e che vogliono seppellire viva qui dentro.”
Lasciò che passasse la piena e che tornasse la calma. Le spiegai con maggior chiarezza ciò che mi era stato appena annunciato. Sembrò aver pietà di me; mi compianse. Mi incoraggiò a non abbracciare uno stato per il quale non sentivo alcun gusto; mi promise di pregare, di fare le sue rimostranze, di perorare la mia causa. Oh, signore, come sono ipocrite queste superiore di convento! Non ne avete idea. In effetti, scrisse. Non ignorava quali sarebbero state le risposte. Me le comunicò, e soltanto molto tempo dopo imparai a dubitare della sua buona fede. Intanto venne a scadere il termine che mi era stato concesso perché prendessi una decisione, ed ella venne a ricordarmelo con studiata tristezza. Dapprima rimase silenziosa, poi lasciò cadere qualche parola di commiserazione da cui capii il resto. Ci fu un’altra scena di disperazione, e poche altre avrò da descriverne. Sapersi controllare è la loro grande arte. Poi mi disse, e a onor del vero credo che allora piangesse:
“Allora, figliola mia, ci state dunque per lasciare! cara figliola, non vi vedremo più!...”
Aggiunse altre parole che non udii. Ero riversa su una sedia; ora tacevo, ora singhiozzavo, restavo immobile oppure mi alzavo, mi appoggiavo alla parete o andavo a sfogare il mio dolore sul suo petto. Le cose erano a questo punto allorché soggiunse:
“Ma perché non fate una cosa? Statemi ad ascoltare e non andate a raccontare che ve l’ho consigliato io; conto su una discrezione assoluta da parte vostra giacché non vorrei per nulla al mondo che mi si dovesse rimproverare. Che cosa vi si chiede? Che prendiate il velo? E allora, perché non lo prendete? Dopo tutto a che cosa vi impegnate? A niente. A restare ancora due anni con noi. Chi sarà vivo allora? Chi sarà morto? Due sono lunghi... possono avvenire tante cose in due anni...”
A queste insidiose affermazioni fece seguire tante carezze, tante manifestazioni d’amicizia, tante dolci bugie: sapevo dov’ero, non sapevo dove mi avrebbero condotta, e così mi lasciai persuadere. Ella dunque scrisse a mio padre. La sua lettera era perfetta: oh, quanto a questo non si poté far di meglio. Non vi si taceva niente: né la mia pena, né il mio dolore o le mie proteste. Vi assicuro che una fanciulla più scaltra di me ne sarebbe stata tratta in inganno; tuttavia finiva col dare il mio consenso. E con quale sollecitudine furono fatti i preparativi! Venne stabilito il giorno, vennero confezionati i miei abiti, giunse il momento della cerimonia senza che, ancor oggi, io possa scorgere il minimo intervallo tra tante cose.
Dimenticavo di dirvi che vidi mio padre e mia madre, che non trascurai nulla per toccarne il cuore, e che li trovai inflessibili.
Il sermone fu fatto dall’abate Blin, dottore della Sorbona, e la vestizione dal signor vescovo di Alep. Questa cerimonia di per sé non è già allegra, ma quel giorno fu più triste. Anche se le monache, piene di sollecitudine, fossero tutte intorno a me per sostenermi, venti volte mi sentii mancare le ginocchia e mi vidi sul punto di cadere sui gradini dell’altare. Non sentivo niente, non vedevo niente, ero istupidita. Mi portavano, e io andavo; mi interrogavano e vi era chi rispondeva per me. Ciononostante, quella crudele cerimonia ebbe fine; tutti se ne andarono ed io rimasi in mezzo al banco al quale mi avevano aggregata. Le mie compagne mi attorniarono; mi abbracciavano e si dicevano: “Ma guardatela, sorella, com’è bella, come il velo nero fa risaltare il candore della sua carnagione! come le sta bene il soggolo! come le arrotonda il volto! e come le fa lisce le guance! come l’abito dà rilievo alla sua vita sottile e alle sue braccia!...”
Io le ascoltavo appena. Ero desolata. E tuttavia, devo ammetterlo, quando fui sola nella mia cella, mi ricordai delle loro adulazioni e non potei fare a meno di controllare nel mio piccolo specchio. Mi sembrò che non fossero del tutto fuori luogo.
Quel giorno alla novizia vengono riserbati onori particolari. Per me furono addirittura esagerati, ma io non vi fui molto sensibile. Finsero di credere il contrario e me lo dissero, benché fosse chiaro che non era affatto vero. La sera, dopo le preghiere, la superiora venne nella mia cella:
“In verità,” mi disse dopo avermi osservata per un momento, “non so perché quest’abito vi ripugni tanto; vi sta a meraviglia e voi siete incantevole; suor Susanna è una bellissima monaca, tutti vi ameranno di più per questo. Vediamo un po’, camminate. Non vi tenete abbastanza dritta: non dovete stare curva in quel modo...”
Mi atteggiò la testa, i piedi, le mani, la vita, le braccia; fu quasi una lezione di Marcel sulle grazie monastiche, giacché ogni stato ha le proprie. Poi si sedette e mi disse:
“Va bene così, ma adesso parliamo un po’ seriamente. Ci sono due anni davanti a voi. I vostri genitori possono cambiar parere; forse voi stessa vorrete restare quando vorranno farvi uscire. Ciò non sarebbe impossibile.”
“Disingannatevi, signora!”
“Siete stata a lungo tra di noi, ma non conoscete ancora la nostra vita. Ha le sue pene, lo ammetto, ma ha anche le sue dolcezze...”
Vi sarà facile immaginare, signore, tutto quello che poté aggiungere a proposito del mondo e del chiostro. È scritto ovunque, e ovunque nella stessa maniera, grazie a Dio mi hanno fatto leggere le innumerevoli storie che i religiosi vanno diffondendo sul loro stato, che ben conoscono e che detestano, contro il mondo che amano, che disprezzano e che non conoscono.
Non starò a descrivervi nei particolari il mio noviziato: ad osservarne tutta l’austerità, non si resisterebbe. Invece, è il tempo più dolce della vita monastica. Una madre delle novizie è la suora più indulgente che si possa trovare. La sua arte consiste nel nascondervi le spine dello stato; è il corso di seduzione più abile e sottile che si possa immaginare. È lei che rende più fitte le tenebre che vi circondano, che vi culla, che vi addormenta, che vi sottomette, che vi suggestiona. La nostra madre si attaccò a me in modo particolare. Non credo che esista un’anima, giovane e senza esperienza, in grado di resistere a quella sua arte funesta. Il mondo ha i suoi precipizi, ma non penso che vi si arrivi per una china così facile. Se avevo starnutito due volte di seguito, ero dispensata dall’uffizio, dal lavoro, dalla preghiera; mi coricavo prima, mi alzavo più tardi: la regola cessava di esistere per me. Immaginate, signore, che vi erano giorni in cui non sospiravo altro che il momento di sacrificarmi. Non accade fatto seccante nel mondo senza che se ne parli; si ritoccano i fatti veri, se ne inventano dei falsi: e poi sono lodi a non finire e rendimenti di grazie a Dio che ci preserva da quelle umilianti avventure.
Intanto si avvicinava il tempo che avevo affrettato col desiderio. Allora mi feci triste. Sentii risvegliarsi e farsi più grandi le ripugnanze. Andavo a confidarle alla superiora o alla madre delle novizie. Sono donne che sanno vendicarsi di tutte le seccature che le provocate. Non crediate infatti che si divertano della parte ipocrita che debbono recitare e delle sciocchezze che sono costrette a ripetervi: alla fine diventa così monotono per loro! Ma poi vi si adattano, e tutto per un migliaio di scudi che entra nelle casse del convento. Ecco l’alto scopo per il quale mentono tutta la vita e preparano a giovani innocenti una disperazione di quaranta, di cinquant’anni, e forse un’infelicità eterna: giacché è certo, signore, che su cento religiose che muoiono prima dei cinquant’anni ve ne sono giusto cento dannate, senza contare quelle che nel frattempo diventano pazze, stupide o furiose.
Un giorno avvenne che una di queste scappò dalla cella nella quale la tenevano rinchiusa. Io la vidi. Ecco l’epoca della mia felicità e della mia sventura, a seconda del modo, signore, mi tratterete. Non ho mai visto niente di più orrido. Era scarmigliata, quasi senza l’abito, e si trascinava dietro catene di ferro; aveva gli occhi smarriti; si strappava i capelli; si percuoteva il petto con i pugni: correva, urlava, rivolgeva a sé e alle altre le più terribili imprecazioni, cercava disperatamente una finestra per buttarsi di sotto. Fui presa dal terrore. Tremavo in tutte le membra. Vidi la mia sorte nel destino di quella sventurata e senza indugio, dentro di me, presi la mia decisione: sarei morta mille volte piuttosto che subire quella sorte.
Intuendo quale effetto quello spettacolo avrebbe prodotto su di me, si sentirono in dovere di prevenirlo. Su quella monaca mi furono dette non so quante ridicole menzogne che si contraddicevano fra loro: che era già un po’ stramba quando era stata accolta in convento; che aveva avuto un grande spavento in un momento delicato; che era vittima di visioni; che si credeva in relazione con gli angeli; che aveva fatto letture perniciose tali da turbarne la mente; che aveva sentito parlare gli innovatori di una morale troppo rigorosa i quali le avevano incusso un tale timore dei giudizi di Dio, che la sua mente già scossa ne era stata sconvolta; che ella non vedeva più che demoni, l’inferno e voragini di fuoco; che tutte ne erano grandemente rattristate; che un caso simile in convento era assolutamente inaudito, e chissà quante altre cose ancora. Naturalmente non mi convinsero. Ad ogni istante mi tornava in mente la mia monaca folle ed io mi ripetevo il giuramento di non pronunciare alcun voto.
E intanto ecco giungere il momento in cui si trattava di dimostrare se sapevo tener fede alla mia parola. Una mattina, dopo l’uffizio, vidi entrare la superiora nella cella. Aveva una lettera in mano. Il suo volto era atteggiato a tristezza e abbattimento. Le braccia le pendevano lungo il corpo. Sembrava che la sua mano non avesse la forza di sollevare quella lettera. Mi guardava, e i suoi occhi sembravano gonfi di lacrime. Ella taceva, ed io pure; aspettava che parlassi per prima. Ne ebbi la tentazione, ma mi trattenni. Mi chiese come mi sentissi; mi disse che l’uffizio quel giorno era stato davvero lungo; che io avevo tossito un po’; che le sembrava stessi poco bene. Al che risposi: “No, mia cara madre.” Teneva sempre la lettera in quella sua mano penzolante, e mentre faceva tutte quelle domande la posò sui suoi ginocchi dove in parte era nascosta dalla mano; infine, dopo essersi dilungata su qualche domanda a proposito di mio padre, di mia madre, vedendo che non le chiedevo che cosa fosse quella carta, mi disse: “Ecco una lettera...”
A queste parole, sentii che il mio cuore si turbava e aggiunsi con la voce spezzata e le labbra tremanti:
“È di mia madre?”
“Avete indovinato: prendete, leggete...”
Mi ripresi un poco, afferrai la lettera, la lessi dapprima con una certa fermezza, ma via via che andavo avanti nella lettura, spavento, indignazione, collera, dispetto, le passioni più diverse si succedevano in me; avevo voci diverse, assumevo espressioni diverse, facevo movimenti diversi. Qualche volta tenevo appena in mano quel foglio, a volte lo tenevo come se avessi voluto strapparlo, o lo stringevo con violenza come se fossi stata tentata di appallottolarlo e di buttarlo lontano da me.
“Ebbene, figliola mia, che cosa risponderemo a questa?”
“Signora, lo sapete bene.”
“Ma no, non lo so. Le circostanze sono contrarie, la vostra famiglia ha subìto delle perdite. Gli affari delle vostre sorelle vanno male, tutte e due hanno molti figli. Si sono dissanguati per maritarle e si rovinano per sostenerle. È impossibile che vi costituiscano un po’ di dote; avete preso l’abito; hanno affrontato delle spese; con questo vostro passo avete suscitato delle speranze; la voce della vostra professione imminente si è sparsa in società. D’altra parte, potete sempre contare sul mio appoggio. Non ho mai spinto nessuno a scegliere la vita religiosa. Dio soltanto può chiamarci a questa scelta, ed è molto pericoloso mescolare la propria voce alla sua. Non mi metterò mai a parlare al vostro cuore, se la grazia è per lui muta. Fino ad oggi non ho da rimproverarmi l’infelicità di un’altra persona, vorreste che cominciassi con voi, figliola mia, voi che mi siete tanto cara? Non ho neppure dimenticato che avete fatto i primi passi obbedendo ai miei suggerimenti e non tollererò che se ne abusi per farvi assumere impegni contrari alla vostra volontà. Perciò vediamo insieme la situazione, concertiamoci. Volete fare professione?”
“No, signora.”
“Non sentite nessuna inclinazione per lo stato religioso?”
“No, signora.”
“Non obbedirete ai vostri genitori?”
“No, signora.”
“Che cosa intendete divenire, allora?”
“Tutto, eccetto monaca. Non voglio esserlo, non lo sarò.”
“Ebbene, non lo sarete; ma cerchiamo di mettere insieme una risposta per vostra madre...”
Ci accordammo su alcune idee. Ella scrisse e mi fece leggere la lettera che anche quella volta mi parve eccellente.
Intanto mi fecero parlare con il direttore spirituale della casa, mi mandarono il dottore che aveva tenuto la predica alla vestizione, mi raccomandarono alla madre delle novizie, incontrai il vescovo d’Alep; dovetti sostenere alcune discussioni con delle pie donne che s’immischiavano dei fatti miei senza che le conoscessi. Erano abboccamenti continui con monaci e preti. Venne mio padre, mi scrissero le mie sorelle, per ultima si fece viva mia madre: resistei a tutto. Nel frattempo fu deciso il giorno della professione dei voti; nulla fu trascurato per ottenere il mio consenso, ma quando si vide che era inutile sollecitarlo, si scelse il partito di farne a meno.
Da quel momento fui rinchiusa nella mia cella, mi fu imposto il silenzio, fui isolata da tutti, abbandonata a me stessa. E vidi chiaramente che erano decisi a disporre di me senza di me. Non volevo pronunciare i voti: questo almeno era sicuro, e tutti i terrori veri o falsi che volevano incutermi di continuo non riuscivano a far vacillare la mia decisione. Tuttavia ero in uno stato pietoso. Non sapevo quanto potesse durare, e se fosse venuto a cessare, sapevo ancor meno quello che poteva accadermi. In mezzo a tante incertezze, scelsi un partito, signore, che giudicherete come meglio crederete. Non vedevo più nessuno, né la superiora, né la madre delle novizie, né le mie compagne. Feci avvertire la prima e finsi di adeguarmi alla volontà dei miei genitori, ma il mio proposito era di far terminare in maniera clamorosa quella persecuzione e di protestare pubblicamente contro la violenza che intendevano usare contro di me. Dissi dunque che erano padroni della mia sorte, che avrebbero potuto disporre a loro piacimento, che dal momento che esigevano che facessi professione, l’avrei fatta. Allora la gioia si diffuse in tutta la casa, le carezze ricominciarono con tutte le lusinghe e tutte le seduzioni. “Dio aveva parlato al mio cuore. Nessuna più di me era fatta per lo stato di perfezione. Era impossibile che ciò non accadesse, tutti se lo erano sempre aspettato. Non si adempiono i propri doveri con tanta edificazione e costanza, quando non si è veramente chiamate. La madre delle novizie non aveva mai visto in nessuna delle sue allieve una vocazione più manifesta. Era assai sorpresa dal capriccio che mi era preso, ma aveva sempre detto alla nostra madre superiora che occorreva tener duro e che sarebbe passato; che le monache migliori avevano avuto di quei momenti; che erano suggerimenti dello spirito maligno il quale raddoppiava i suoi sforzi quando era sul punto di perdere la sua preda; che ormai stavo per sfuggirgli; che per me non c’erano più che rose; che gli obblighi della vita monastica mi sarebbero parsi tanto più sopportabili in quanto me li ero così ingigantiti; che quell’improvviso appesantimento del giogo era una grazia del cielo che si serviva di tale mezzo per renderlo più leggero...”
Mi sembrava abbastanza singolare che la stessa cosa potesse venire da Dio e dal diavolo, a seconda di come a loro piacesse considerarla. Vi sono molte circostanze simili in religione, e tra coloro che mi hanno consolata, alcuni mi hanno detto che i miei pensieri erano altrettante istigazioni di Satana, altri che erano ispirazioni di Dio. Lo stesso male viene o da Dio che ci mette alla prova, o dallo spirito maligno che ci tenta.
Mi comportai con discrezione; ritenni di poter rispondere di me. Vidi mio padre. Mi parlò freddamente. Vidi mia madre. Mi abbracciò. Ricevetti lettere di congratulazioni delle mie sorelle e di molti altri. Seppi che a tenere il sermone sarebbe stato un certo signor Sornin, vicario di Saint-Roch e che il signor Thierry, cancelliere dell’università avrebbe ricevuto i miei voti. Tutto andò bene sino alla vigilia del gran giorno, a parte il fatto che avendo saputo che la cerimonia sarebbe stata clandestina, che ci sarebbero state pochissime persone e che la porta della chiesa sarebbe stata aperta soltanto ai parenti, per mezzo della suora addetta alla ruota convocai tutte le persone del vicinato, i miei amici, le mie amiche; ottenni anche il permesso di scrivere ad alcuni dei miei conoscenti. Nessuno si aspettava tutta quell’affluenza di gente. Fu necessario, lasciarla entrare, e l’assemblea fu all’incirca quanta ne occorreva per il mio progetto.
Oh, signore, che notte fu quella che precedette la cerimonia! Non mi coricai affatto e rimasi tutto il tempo seduta sul letto. Invocai l’aiuto di Dio: alzavo le mani al cielo, lo chiamavo a testimone della violenza che mi veniva inflitta. Mi raffigurai la parte che dovevo sostenere ai piedi dell’altare, una fanciulla che protestava ad alta voce contro un’azione cui sembrava aver acconsentito, lo scandalo degli astanti, la disperazione delle monache, il furore dei miei genitori. “Oh, mio Dio, che ne sarà di me?...” Pronunciando queste parole mi sentii mancare e caddi svenuta sul guanciale; quando rinvenni fui presa da un grande brivido. Il tremito mi faceva battere le ginocchia, battere i denti rumorosamente. Poi, m’invase una terribile vampata di calore. La mia mente si offuscò. Non ricordo né di essermi spogliata, né di essere uscita dalla cella. Tuttavia fui trovata nuda in camicia da notte, stesa per terra davanti alla porta della superiora, immobile e quasi senza vita. Queste cose le seppi in seguito. Ero stata riportata nella mia cella e la mattina seguente la superiora, la madre delle novizie, e quelle che vengono chiamate le assistenti attorniavano il mio letto. Ero molto abbattuta. Mi rivolsero alcune domande e si resero conto dalle mie risposte che non ero affatto consapevole di ciò che era avvenuto. Nessuno me ne parlò. Mi chiesero come stavo, se persistevo nella mia santa risoluzione e se mi sentivo in grado di sopportare la fatica della giornata. Risposi di sì, e contrariamente ad ogni loro attesa non vi fu nessun mutamento.
Tutto era stato predisposto fin dal giorno prima. Furono suonate le campane perché tutti quanti sapessero che si stava per creare un’infelice. Il cuore mi batté ancora. Mi sembrava che avessero vinto. Vennero a vestirmi con cura: quel giorno è un giorno di gala. Adesso che ricordo tutte quelle cerimonie, mi sembra che avrebbero avuto qualcosa di solenne e di assai commovente per una giovane innocente che non si fosse sentita portata ad una vocazione diversa.
Fui condotta in chiesa. Si celebrò la santa messa. Il buon vicario il quale supponeva in me una rassegnazione che non avevo affatto, mi tenne un lungo sermone in cui non vi era una sola parola che non fosse in contrasto con i miei sentimenti. Era davvero ridicolo tutto quello che mi diceva sulla mia felicità, sulla grazia, sul mio coraggio, il mio zelo, il mio fervore e tutti i nobili sentimenti che mi attribuiva. Il contrasto fra il suo elogio e il passo che stavo per compiere mi turbò; ebbi momenti d’incertezza, ma che durarono poco. Sentii ancor meglio che mi mancava tutto quello che era necessario per essere una buona monaca.
Infine giunse il momento terribile. Allorché dovetti entrare nel luogo in cui dovevo pronunciare i voti, le gambe non mi ressero; due delle mie compagne mi presero sotto le braccia. La mia testa era reclinata su una di loro ed esse mi trascinavano a fatica. Non so che cosa accadesse nell’animo dei presenti, ma ciò che vedevano era una giovane vittima morente che si portava all’altare e da ogni petto sfuggivano sospiri e singhiozzi tra i quali sono certa che non si udivano quelli di mio padre e di mia madre. Erano tutti in piedi; alcune giovinette erano salite su delle sedie e stavano aggrappate alle sbarre della grata. Aleggiava un profondo silenzio allorché colui che presiedeva alla mia professione mi disse:
“Maria Susanna Simonin, promettete di dire la verità?”
“Lo prometto.”
“È per vostra libera scelta e di vostra spontanea volontà che siete qui?”
Risposi: “No.” Ma quelle che mi accompagnavano risposero per me “Sì.”
“Maria Susanna Simonin, promettete a Dio castità, povertà e obbedienza?”
Esitai un momento. Il prete aspettava, ed io risposi:
“No, signore,”
Ricominciò:
“Maria Susanna Simonin, promettete a Dio castità, povertà e obbedienza?”
Gli risposi con voce più ferma:
“No, signore.”
Si interruppe e mi disse:
“Figliola mia, riprendetevi, ed ascoltatemi.”
“Signore,” gli dissi, “voi mi chiedete se prometto a Dio castità, povertà e obbedienza: vi ho sentito bene e vi rispondo di no.”
E voltandomi poi verso i presenti tra i quali si era levato un gran mormorio, feci cenno che volevo parlare; il mormorio cessò e io dissi:
“Signori, e soprattutto voi, padre mio e madre mia, vi chiamo tutti a testimoni...”
A queste parole una delle suore lasciò cadere il velo della grata e vidi che era inutile proseguire. Le monache mi circondarono, mi subissarono di rimproveri; io le ascoltavo senza proferir parola. Fui condotta nella mia cella dove fui confinata sottochiave. Qui, sola, abbandonata alle mie riflessioni, cominciai a tranquillizzarmi l’animo. Ripensai al passo compiuto e non ne fui affatto pentita. Mi resi conto che dopo lo scalpore suscitato, era impossibile che restassi più a lungo in quel luogo, e che forse non avrebbero osato rimandarmi in convento. Non sapevo che cosa avrebbero fatto di me, ma niente mi sembrava peggiore del farmi monaca contro la mia volontà. Per un periodo alquanto lungo nessuno mi rivolse la parola. Coloro che mi portavano da mangiare, entravano, posavano il pasto per terra e se ne andavano in silenzio. Dopo un mese mi consegnarono degli abiti secolari. Mi tolsero quelli del convento. Venne la superiora e mi disse di seguirla. La seguii fino al portone d’ingresso; salii su una carrozza dove trovai mia madre, sola, che mi aspettava. Mi sedetti sul sedile davanti a lei e la carrozza partì. Restammo per qualche tempo l’una di fronte all’altra senza proferir parola. Io tenevo gli occhi bassi e non osavo guardarla. Non so cosa stesse succedendo dentro di me, ma d’un tratto mi gettai ai suoi piedi e piegai la testa sulle sue ginocchia. Non dicevo parola, ma singhiozzavo e mi sentivo soffocare. Lei mi respinse duramente. Non mi rialzai. Il sangue cominciò a uscirmi dal naso. Nonostante la sua resistenza, le afferrai una mano e inondandola di lacrime e di sangue, premendo la bocca su quella mano, la baciavo e le andavo dicendo:
“Siete sempre mia madre, e io sono sempre vostra figlia...”
Mi rispose respingendomi ancor più rudemente e strappando la sua mano dalle mie:
“Alzatevi, sciagurata, alzatevi.”
Obbedii, mi sedetti di nuovo e mi tirai la cuffia sul viso. C’era stata tanta autorità e tanta fermezza nel suono della sua voce che sentii il bisogno di nascondermi ai suoi occhi. Le lacrime e il sangue che mi colava dal naso si mescolavano, mi scendevano lungo le braccia e senza accorgermene ne ero tutta coperta. Dalle poche parole che disse, ne dedussi che il suo abito e la sua biancheria si erano macchiati e che la cosa la seccava. Giungemmo a casa dove fui condotta senza indugio in una cameretta che era stata allestita per me.
Per le scale mi gettai ancora ai suoi ginocchi, la trattenni per le vesti, ma il solo risultato fu di farla voltare verso di me e guardarmi con un moto sdegnoso della testa, della bocca e degli occhi, che voi riuscirete a immaginare meglio di quanto non sappia descrivere.
Entrai nella mia nuova prigione dove trascorsi sei mesi e inutilmente sollecitai la grazia di parlarle, di vedere mio padre, o di scrivere loro. Mi portavano da mangiare, mi servivano. Un domestico mi accompagnava alla messa nei giorni di festa, poi mi rinchiudeva di nuovo. Io leggevo, lavoravo, piangevo, a volte cantavo; così passavano le mie giornate. Mi sosteneva il sentimento segreto che la mia sorte, per quanto dura, potesse cambiare. Ma ormai era deciso che sarei stata monaca, e lo fui.
Tanta mancanza di umanità, tanta caparbietà da parte dei miei genitori finirono col confermarmi ciò che sospettavo sulla mia nascita; non ho mai trovato altro modo per scusarli.
Mia madre credeva apparentemente che un giorno potessi rimettere in discussione la divisione dei beni, che reclamassi la legittima, e intendessi far considerare la figlia naturale alla stregua delle figlie legittime. Ma quella che era soltanto una congettura, si trasformò in certezza.
Mentre ero rinchiusa in casa, raramente esercitavo le pratiche esteriori della religione: tuttavia permettevano che andassi a confessarmi la vigilia delle feste solenni. Vi ho già detto che avevo lo stesso direttore spirituale di mia madre. Gli parlai, gli descrissi tutta la durezza del comportamento adottato nei miei confronti da circa tre anni. Ne era a conoscenza. Ebbi a lamentarmi soprattutto di mia madre con amarezza e risentimento. Quel prete era entrato in religione in età già avanzata e aveva una certa umanità. Mi ascoltò tranquillamente e mi disse:
“Figliola mia, compiangete vostra madre, compiangetela ancor più di quanto non la biasimate. È di animo buono; siate certa che si comporta così suo malgrado.”
“Suo malgrado, signore? E chi può obbligarvela? Non è lei che mi ha messo al mondo? E che differenza c’è tra me e le mie sorelle?”
“Molta.”
“Molta! Non vi capisco...”
Stavo per cominciare un confronto tra me e le mie sorelle, quando mi interruppe e mi disse:
“Via, via, il difetto dei vostri genitori non è la mancanza di umanità. Cercate di sopportare con pazienza la vostra sorte, e di farvene almeno un merito agli occhi di Dio. Vedrò vostra madre e siate certa che per aiutarvi farò ricorso a tutto l’ascendente che possiedo sul suo animo.”
Quel molta, che mi aveva risposto, fu per me come un lampo di luce: non dubitai più sulla verità di ciò che avevo pensato sulla mia nascita.
Il sabato seguente, verso le cinque e mezzo del pomeriggio quando calava la sera, la domestica addetta al mio servizio, salì da me e mi disse:
“La signora vostra madre ordina che vi vestiate.”
Un’ora dopo:
“La signora vuole che scendiate con me.”
Trovai alla porta una carrozza sulla quale salii con la domestica e venni a sapere che andavamo dai Foglianti [16] , da padre Serafino.
Ci aspettava. Era solo. La domestica si allontanò ed io entrai nel parlatorio. Mi sedetti inquieta e curiosa di ciò che aveva da dirmi. Ed ecco come mi parlò:
“Signorina, l’enigma la condotta severa dei vostri genitori vi sarà spiegata; me ne ha dato il permesso la signora vostra madre. Siete una fanciulla assennata, avete intelligenza, fermezza di propositi. Avete un’età in cui vi si potrebbe confidare un segreto, anche se non vi riguardasse. Già molto tempo fa ho esortato per la prima volta la vostra signora madre a rivelarvi quello che adesso state per sapere; non vi si è mai potuta risolvere: è duro per una madre confessare una colpa grave alla propria creatura. Conoscete il suo carattere; è difficilmente compatibile con quella umiliazione che comporta una simile confessione. Ha ritenuto di poter farvi fare ciò che voleva, senza ricorrervi; si è sbagliata; ne è irritata; oggi decide di seguire il mio consiglio. È stata lei ad incaricarmi di dirvi che non siete figlia del signor Simonin.”
Gli risposi senza esitare:
“Lo sospettavo.”
“Ora, signorina, vedete, considerate, soppesate, giudicate voi se la vostra signora madre può, senza il consenso, o anche con il consenso del vostro signor padre, considerarvi alla stessa stregua di figlie delle quali non siete la sorella; se può confessare al vostro signor padre un fatto sul quale egli ha già fin troppi sospetti.”
“Ma, signore, chi è mio padre?”
“Questo, signorina, non mi è stato confidato. Non vi è alcun dubbio, signorina,” aggiunse, “che le vostre sorelle hanno goduto di incomparabili vantaggi su di voi e che sono state prese tutte le precauzioni possibili e immaginabili, attraverso i contratti di matrimonio, rogiti, stipulazioni, fidecommessi ed altri mezzi, per ridurre a zero la vostra legittima nell’eventualità in cui faceste ricorso alla legge per ottenerla. Se perdete i vostri genitori, troverete ben poca cosa. Se rifiutate di entrare in convento, forse rimpiangerete di non esservi.”
“È impossibile, signore, e io non chiedo nulla.”
“Voi non sapete che cos’è la fatica, il dolore, l’indigenza...”
“Conosco almeno il prezzo della libertà e il peso di una condizione alla quale non si è chiamati.”
“Vi ho detto quanto avevo da dirvi; ora spetta a voi, signorina, fare le vostre riflessioni.”
Poi si alzò.
“Vi prego, signore, ancora una domanda.”
“Chiedete pure ciò che volete.”
“Le mie sorelle sono a conoscenza di ciò che mi avete rivelato?”
“No, signorina.”
“E come hanno potuto avere il coraggio di spogliare la loro sorella? Giacché loro mi credono tale.”
“Ah, signorina! l’interesse, l’interesse! Non avrebbero trovato i buoni partiti che hanno trovato. Ognuno pensa a se in questo mondo, e non vi consiglio di contare su di loro nel caso in cui vi vengano a mancare i vostri genitori. Potete essere sicura che vi contenderanno fino all’ultimo centesimo la piccola parte che dovreste dividere con loro. Hanno molti figlioli; sarà un pretesto ineccepibile per ridurvi alla mendicità. Inoltre non possono più fare niente; sono i mariti che fanno tutto. Se nutrissero qualche sentimento di commiserazione, l’aiuto che vi darebbero all’insaputa dei loro mariti diverrebbe fonte di discordie domestiche. Io non vedo altro che cose del genere: o figli abbandonati, o figli, sia pure legittimi, aiutati a scapito della pace domestica. Senza contare, signorina, che il pane che si riceve dagli altri è un pane amaro. Se avete fiducia in me, vi riconcilierete con i vostri genitori; farete ciò che vostra madre si aspetta da voi; prenderete il velo; vi verrà costituita una piccola pensione con la quale passerete dei giorni, se non proprio felici, almeno sopportabili. Non vi nasconderò d’altro canto che l’abbandono apparente di vostra madre, l’ostinatezza nel volervi rinchiudere, e alcune altre circostanze che mi sfuggono, ma che un tempo sapevo, hanno prodotto su vostro padre esattamente lo stesso effetto che su di voi. La vostra nascita gli era sospetta. Ora non più. E pur non essendone al corrente, non ha dubbi che voi gli apparteniate come figlia solo in virtù della legge che attribuisce i figli a colui che porta il titolo di marito. Suvvia, signorina, voi siete buona e saggia; pensate a ciò che avete appena saputo.”
Mi alzai, mi misi a piangere. Vidi che anche lui era intenerito; alzò lentamente gli occhi al cielo e mi riaccompagnò. Ritrovai la domestica che mi aveva accompagnata; risalimmo in carrozza e tornammo a casa.
Era tardi. Buona parte della notte riflettei su quanto mi era stato rivelato; continuai a riflettervi l’indomani. Non avevo padre; gli scrupoli mi avevano privato di madre; si erano premuniti affinché non potessi aspirare ai diritti della mia nascita legale; una prigionia domestica durissima, senza nessuna speranza, nessuna risorsa. Forse se certe spiegazioni mi fossero state date prima, dopo che le mie sorelle si erano sistemate, mi avrebbero tenuta in quella casa che la gente continuava a frequentare e si sarebbe trovato qualcuno al quale il mio carattere, la mia intelligenza, il mio aspetto e i miei doni, sarebbero sembrati una dote bastante. La cosa non era ancora impossibile, ma lo scalpore suscitato in convento la rendeva più difficile. Si concepisce difficilmente che una fanciulla sui diciassette anni sia potuta giungere a tali estremi senza una fermezza di carattere poco comune. Gli uomini lodano molto questa qualità, ma mi sembra che ne facciano volentieri a meno nelle fanciulle di cui intendono fare le loro spose. Pure, era una via d’uscita da tentare prima di prendere in considerazione un’altra soluzione. Decisi di parlarne a mia madre e le feci chiedere un colloquio che mi fu accordato.
Era inverno. Mia madre era seduta in una poltrona davanti al fuoco: aveva un volto severo, lo sguardo fisso e i lineamenti immobili. Mi avvicinai a lei, mi buttai ai suoi piedi e le chiesi perdono di tutti i miei torti.
“Il perdono dipende da ciò che state per dirmi. Alzatevi; vostro padre è assente, avete tutto il tempo di spiegarvi. Avete visto padre Serafino, sapete infine chi siete e ciò che potete aspettarvi da me, se il vostro progetto non è quello di punirmi finché vivrò per una colpa che ho già fin troppo espiata. Ebbene, signorina, che cosa volete da me? Che cosa avete deciso?”
“Mamma,” le risposi, “so che non ho niente e che non posso pretendere niente. Lungi da me l’intenzione di accrescere le vostre sofferenze, qualunque sia la loro natura; forse mi avreste trovata più sottomessa alla vostra volontà se mi aveste messa prima al corrente di alcune circostanze che difficilmente potevo sospettare. Ma adesso finalmente so. Mi conosco, e non mi resta che comportarmi secondo le necessità della mia condizione. Non sono più sorpresa delle distinzioni che sono state fatte tra me e le mie sorelle; riconosco che sono giuste, le sottoscrivo. Ma sono pur sempre vostra figlia, voi mi avete portato nel vostro seno e spero che non lo dimenticherete.”
“Che sia meledetta,” esclamò vivamente, “se non vi riconoscessi mia per quanto è in mio potere!”
“Ebbene, mamma,” le dissi, “rendetemi il vostro affetto, rendetemi la vostra presenza; rendetemi la tenerezza di colui che si crede mio padre.”
“Poco ci manca, che non sappia la verità sulla vostra nascita come noi due. Non vi vedo mai accanto a lui senza sentire i suoi rimproveri; me li rivolge con la durezza con la quale vi tratta; non sperate da parte sua i teneri sentimenti di un padre. E inoltre, debbo confessarvelo, voi mi ricordate un tradimento, un’ingratitudine così odiosa da parte di un altro, che non posso sopportarne l’idea; quell’uomo si frappone fra noi, mi respinge, e l’odio che debbo a lui si riversa su di voi.”
“Come!” replicai, “non posso sperare che mi trattiate, voi e il signor Simonin, come un’estranea, un’estranea che avreste accolta per spirito umanitario?”
“Non possiamo farlo, né l’uno, né l’altra. Figlia mia, non mi avvelenate ulteriormente la vita. Se non aveste delle sorelle, so quel che dovrei fare; ma ne avete due, e tutte e due hanno una famiglia numerosa. Da tanto tempo ormai si è spenta la passione che mi sorreggeva; la coscienza ha ripreso i suoi diritti.”
“Ma colui al quale debbo la vita?”
“Non c’è più; è morto senza ricordarsi di voi; e questa la meno grave delle sue colpe...”
A questo punto la sua espressione si alterò, i suoi occhi si accesero, lo sdegno le scompose i tratti del volto. Voleva parlare, ma il tremito delle labbra le impediva di articolare parola. Era seduta; piegò la testa fra le mani per nascondermi i moti violenti che le sconvolgevano l’animo. Rimase per un certo tempo in quello stato, poi si alzò, fece qualche giro intorno alla camera senza dir parola; cercava a fatica di trattenere le lacrime che scorrevano, e andava dicendo:
“Mostro! Non è certo per volontà sua se non siete morta soffocata nel mio seno con tutto quello che mi ha fatto soffrire, ma Dio ci ha tenute in vita l’una e l’altra perché la madre espiasse la propria colpa attraverso la figlia... Figlia mia, voi non avrete nulla, non avrete mai nulla. Il poco che posso fare per voi, lo tolgo alle vostre sorelle: ecco le conseguenze di un momento di debolezza. Spero tuttavia di non avere niente da rimproverarmi morendo; avrò guadagnato la vostra dote con la mia economia. Non abuso dei mezzi del mio sposo. Ogni giorno metto da parte quello che di tanto in tanto ottengo dalla sua liberalità. Ho venduto i gioielli che avevo ed ho avuto da lui il permesso di disporre a mio piacimento della somma che ne ho ricavato. Mi piaceva il gioco, non gioco più; mi piacevano gli spettacoli, e me ne sono privata; mi piaceva la compagnia, vivo ritirata; mi piaceva il fasto, vi ho rinunciato. Se entrate in convento, secondo la mia volontà e quella del signor Simonin, la vostra dote sarà il frutto di tutto ciò che io sopporto ogni giorno.”
“Ma, mamma,” le risposi, “vengono ancora a casa nostra delle persone dabbene. Forse vi sarà qualcuno che soddisfatto della mia persona, non esigerà nemmeno i risparmi che avete destinato alla mia sistemazione.”
“Ormai è da escludersi. Lo scandalo che avete suscitato, vi ha perduto.”
“È un male senza rimedio?”
“Senza rimedio.”
“Ma se io non trovo un marito, è proprio necessario che mi rinchiuda in un convento?”
“A meno che non vogliate perpetuare il mio dolore e i miei rimorsi finché non chiuda gli occhi. Arriverò a quel giorno: le vostre sorelle, in quel momento terribile, saranno intorno al mio letto: ditemi se potrò vedervi in mezzo a loro; quale sarebbe l’effetto della vostra presenza in quegli ultimi istanti! Figlia mia, giacché lo siete mio malgrado, le vostre sorelle hanno ricevuto per legge un nome che voi portate con la frode. Non addolorate una madre che sta per spirare; lasciatela scendere in pace nella tomba; fate che possa dire a se stessa, allorché sarà sul punto di apparire davanti al grande giudice, che ha riparato il proprio errore per quanto stava in lei; lasciatela illudersi che, dopo la sua morte, voi non seminerete discordia in questa casa, e che non rivendicherete diritti che non vi spettano.”
“Mamma,” le risposi, “state tranquilla quanto a questo; fate venire un uomo di legge; fategli redigere un atto di rinuncia ed io sottoscriverò tutto quello che vorrete.”
“È impossibile: un figlio non si disereda da solo; può essere unicamente il castigo di un padre o di una madre irritati a giusto titolo. Se piacesse a Dio richiamarmi a sé domani, domani dovrei giungere a questi estremi e aprirmi con mio marito al fine di prendere con lui le stesse decisioni. Non mi esponete a una confessione che mi renderebbe odiosa ai suoi occhi e che comporterebbe conseguenze tali da disonorarvi. Se mi sopravviverete, resterete senza nome, senza fortuna e senza una posizione definita. Ditemi, disgraziata, che ne sarà di voi; quali idee volete che porti con me morendo? Bisognerà perciò che dica a vostro padre... Che cosa gli dirò? Che non siete sua figlia!... Figlia mia, se bastasse gettarsi ai vostri piedi per ottenere da voi... Ma voi non sentite niente; voi avete l’anima inflessibile di vostro padre...”
In quel momento entrò il signor Simonin. Vide il turbamento di sua moglie. Le voleva bene e aveva un carattere violento. Si fermò di botto e volgendo uno sguardo terribile verso di me, esclamò:
“Uscite!”
Se fosse stato mio padre, non gli avrei obbedito, ma non lo era. Aggiunse, parlando al domestico che mi faceva luce:
“Ditele di non farsi più vedere.”
Mi rinchiusi nella mia piccola prigione. Riflettei su quanto mia madre mi aveva detto. Caddi in ginocchio; pregai Dio che mi ispirasse; pregai a lungo con il viso che toccava il pavimento. Non si invoca quasi mai la voce del cielo se non quando non sappiamo a cosa decidersi, ed è raro che essa non ci consigli di obbedire. Fu dunque la decisione che presi: “Vogliono che mi faccia monaca. Forse è tale anche la volontà di Dio. Ebbene, mi farò monaca. Giacché debbo essere comunque infelice, che importa il luogo!” Raccomandai alla domestica che si occupava di me di avvertirmi quando mio padre fosse uscito. Il giorno dopo sollecitai subito un incontro con mia madre; mi fece rispondere che aveva promesso al signor Simonin di non rivolgermi la parola, ma che potevo scriverle con una matita che mi venne data. Scrissi perciò su un pezzetto di carta quel foglio fatale è stato ritrovato, e se ne è fatto uso contro di me in maniera inconfutabile:
“Mamma, sono spiacente per tutti i dolori che vi ho inflitto; ve ne chiedo perdono; intendo non causarvene più. Fate di me tutto ciò che vorrete; se è vostra volontà ch’io entri in religione, mi auguro che sia anche quella di Dio.”
La domestica prese lo scritto e lo portò a mia madre. Poco dopo risalì e mi disse con trasporto:
“Signorina, giacché bastava una sola parola per fare la felicità di vostro padre, di vostra madre, e la vostra, perché averla differita tanto a lungo? Il signore e la signora hanno una faccia come non ho mai visto da quando sono qui: si bisticciavano continuamente per causa vostra. Grazie a Dio, ora è finita...”
Mentre mi parlava, pensavo che avevo appena firmato la mia sentenza di morte e tale presentimento, signore, si avvererà, se voi mi abbandonate.
Trascorsero alcuni giorni senza che sentissi parlare di niente; ma una mattina, verso le nove, la porta si aprì bruscamente; era il signor Simonin che entrava in veste da camera e berretta da notte. Da quando sapevo che non era mio padre, la sua presenza non mi incuteva spavento. Mi alzai, gli feci la riverenza. Mi sembrò di avere due cuori: non potevo pensare a mia madre senza intenerirmi, senza aver voglia di piangere, ma con il signor Simonin le cose stavano diversamente. Non vi è dubbio che un padre ispira un certo tipo di sentimento che non si prova per altri che lui al mondo: per saperlo, bisogna essersi trovati faccia a faccia a un uomo che ha rivestito a lungo, e che ha appena perduto, questo carattere augusto; gli altri lo ignoreranno sempre. Se passavo dalla sua presenza a quella di mia madre, mi sembrava di essere un’altra.
Mi disse:
“Susanna, riconoscete questo biglietto?”
“Sì, signore.”
“L’avete scritto liberamente?”
Non potei che rispondere di sì.
“Siete almeno decisa a mettere in atto ciò che promettete?”
“Lo sono.”
“Avete delle preferenze per un convento particolare?”
“No, mi sono indifferenti.”
“Basta così.” Mi lasciò e scese.
Ecco quanto risposi; ma disgraziatamente le mie parole non furono scritte. Trascorsi una quindicina di giorni nell’ignoranza più completa di ciò che stava accadendo, ma ebbi l’impressione che si fossero rivolti a diversi conventi, e che lo scandalo che avevo suscitato la prima volta impediva che fossi ricevuta come postulante.
A Longchamp [17] furono sollevate meno difficoltà. Probabilmente perché si lasciò intendere che conoscevo la musica e che avevo una bella voce. I miei genitori esagerarono abbondantemente le difficoltà che avevano incontrato e la grazia che mi facevano accogliendomi in quel convento. Mi indussero persino a scrivere alla superiora. Non misuravo le conseguenze di quella testimonianza scritta che esigevano da me; evidentemente temevano che un giorno potessi rinnegare i miei voti; volevano avere un’attestazione scritta di mio pugno che li avevo pronunciati in piena libertà. Senza tale motivo, come mai quella lettera che doveva restare nelle mani della superiora, sarebbe passata in seguito nelle mani dei miei cognati? Ma è meglio chiudere gli occhi su questo particolare: mi fanno vedere il signor Simonin come non voglio vederlo. Ormai non è più di questo mondo.
Mi condussero a Longchamp: fu mia madre ad accompagnarmi. Non chiesi di salutare il signor Simonin; confesso che il pensiero mi venne solo strada facendo. Mi aspettavano: ero già conosciuta per la mia storia e i miei doni musicali. Non si parlò della prima, ma tutti avevano fretta di vedere se l’acquisizione fatta dal convento fosse all’altezza delle aspettative. Dopo che ci fummo intrattenute su molti argomenti senza interesse, giacché potete bene immaginare che dopo quel che mi era accaduto non si fece parola né di Dio, né di vocazione, né dei pericoli del mondo, né della dolcezza della vita in convento, e che non si sfiorarono nemmeno le pie insulsaggini con cui si cerca di riempire quei primi momenti, la superiora disse:
“Voi, signorina, conoscete la musica, sapete cantare. Noi abbiamo qui un clavicembalo; se volete, potremmo andare nel nostro parlatorio...”
Avevo il cuore oppresso, ma non era il momento di mostrare la mia ripugnanza. Mia madre uscì per prima, io la seguii; la superiora chiudeva il breve corteo con alcune monache spinte dalla curiosità. Era già sera; portarono delle candele; mi sedetti davanti al clavicembalo. A lungo accennai a varie arie sulla tastiera, cercando un brano nella mia testa che è piena di musica, e non riuscii a trovarne. Dato che la superiora mi esortava, cantai sciattamente, per abitudine, perché il pezzo mi era familiare: Tristi preparativi, pallide fiaccole, luce più orrenda delle tenebre... [18] Non so quale effetto produsse il mio canto, ma non mi ascoltarono a lungo: mi interruppero con delle lodi che mi meravigliai di aver meritato così rapidamente e senza tanta fatica. Mia madre mi affidò alla superiora, mi porse la mano da baciare, e se ne andò.
Eccomi dunque in un altro convento, postulante, e per di più con l’aria di postulare di mia spontanea volontà. Ma voi, signore, voi che conoscete tutto quello che è accaduto fino a questo momento che cosa ne pensate? Allorché volli ricorrere contro i miei voti, la maggior parte di questi fatti non furono allegati; gli uni, perché erano verità destituite di prove, gli altri, perché mi avrebbero resa odiosa senza giovarmi; non si sarebbe vista in me che una figlia snaturata, che insultava la memoria dei propri genitori per ottenere la libertà. Avevano la prova di ciò che era contro di me, ciò che era a mio vantaggio non poteva essere allegato, né essere provato. Personalmente non volli nemmeno che venisse insinuato nei giudici il sospetto della mia nascita; alcune persone, poco esperte di leggi, mi consigliarono di chiamare in causa il direttore spirituale mio e di mia madre. La cosa era impossibile, e quand’anche lo fosse stata, non l’avrei permessa. Ma a proposito, prima ch’io lo dimentichi e che il desiderio del mio tornaconto vi impedisca di pensarci, a meno che non siate di diverso parere, credo che non si debba far sapere che conosco la musica e suono il clavicembalo. Basterebbe per farmi riconoscere: l’esibizione di queste mie qualità mal si accorda con l’esistenza oscura e la sicurezza che vado cercando. Le persone della mia condizione ignorano tali cose, e anch’io debbo ignorarle. Se fossi costretta ad espatriare, me ne servirei invece per guadagnarmi da vivere. Espatriare! Ma ditemi perché quest’idea mi spaventa. Perché non so dove andare; perché sono giovane e senza esperienza; perché temo la miseria, gli uomini e il vizio; perché ho sempre vissuto fra quattro mura e se mi trovassi fuori di Parigi, mi crederei sperduta nel mondo. Forse tutto questo non è vero, ma è quello ch’io sento. Dipende soltanto da voi, signore, ch’io non sappia dove andare, o che fare.
A Longchamp, come nella maggior parte dei conventi, la superiora cambia ogni tre anni. Allorché vi fui condotta, era stata da poco chiamata a tale carica, una certa signora de Moni. Non posso dirvene troppo bene. Eppure a perdermi è stata la sua bontà. Era una donna assennata, che conosceva il cuore umano. Era piena di indulgenza, benché nessuno meno di lei ne avesse bisogno; eravamo tutte figlie sue. Non vedeva se non le colpe che non poteva fare a meno di vedere, o la cui gravità non le consentiva di chiudere gli occhi. Ne parlo in maniera disinteressata; io ho compiuto il mio dovere in tutto e per tutto ed ella riconoscerebbe che non commisi alcuna colpa di cui mi dovesse punire o che mi dovesse perdonare. Se dimostrava una certa predilezione, erano i meriti ad ispirargliela. Dopo di che, non so se sia opportuno dirvi che tra le sue favorite non fui la meno diletta. So che sto facendo di me stessa un grande elogio, più grande di quanto non immaginiate, giacché non l’avete conosciuta. Il nome di favorita è quello che le altre d’animo meschino danno alle preferite della superiora. Se avessi un difetto da rimproverare alla signora de Moni, è di essersi sempre lasciata dominare apertamente dalla sua inclinazione per la virtù, la pietà, la franchezza, la dolcezza, i doni naturali, l’onestà, e inoltre di non aver ignorato che quelle che non potevano aspirare alla sua predilezione ne erano di conseguenza tanto più umiliate. Aveva anche il dono, forse più comune in convento che fuori, nel mondo, di giudicare immediatamente i caratteri. Era raro che una monaca che non le fosse piaciuta a prima vista, le piacesse in seguito. Non le ci volle molto a prendermi in simpatia, e nei primi tempi ebbi in lei una fiducia assoluta. Sventurate coloro che non gliela concedevano senza sforzo! Bisognava proprio che fossero cattive, prive di qualità, e che ne fossero consapevoli. Volle parlarmi della mia avventura a Santa Maria, gliela raccontai senza nulla dissimulare, proprio come a voi; le raccontai tutto quello che ho scritto a voi. La mia nascita, le mie pene, niente fu dimenticato. Mi compianse, mi consolò, mi fece sperare in un avvenire più dolce.
Terminò intanto il periodo del postulato e giunse quello di indossare l’abito. Lo indossai. Feci il mio noviziato senza ripugnanza. Sorvolo su quei due anni perché il solo sentimento triste che provai fu quello di avanzare a passo a passo verso l’inizio di uno stato per il quale non ero affatto tagliata. A volte questo sentimento mi assaliva con forza. Allora ricorrevo senza indugio alla mia buona superiora, che mi abbracciava, che dava sollievo alla mia anima, che mi esponeva energicamente le sue ragioni e che finiva sempre col dirmi:
“E gli altri stati non hanno forse le loro spine? Noi non sentiamo che le nostre. Su, figliola mia, mettiamoci in ginocchio, e preghiamo.”
Allora si prosternava, pregava ad alta voce, ma con tanto calore ed eloquenza, con tanta dolcezza ed elevazione, e forza, che la si sarebbe detta ispirata dallo Spirito di Dio. I suoi pensieri, le sue espressioni, le sue immagini, penetravano fin nel profondo del cuore. Dapprima la si ascoltava; poi, a poco a poco, si era trascinati, ci si univa a lei, l’anima trasaliva, e si condividevano i suoi slanci. Il suo scopo non era quello di sedurmi, ma in pratica accadeva proprio questo. La si lasciava con un cuore ardente, la gioia e l’estasi impresse sul volto, ed erano così dolci le lacrime che si versavano! Lo stesso effetto si verificava in lei e vi rimaneva a lungo, proprio come in noi. Non mi riferisco alla mia sola esperienza, ma a quella di tutte le suore. Alcune mi hanno detto che sentivano nascere nel loro intimo il bisogno di essere consolate, come nasce quello di un piacere molto grande, e credo che a me sia mancata soltanto un po’ più d’abitudine per arrivare a questo punto.
Ciò nonostante, mentre si avvicinava il momento della mia professione, provai una malinconia così profonda da mettere realmente a dura prova la mia buona superiora. Quella sua virtù la abbandonò, come mi confessò lei stessa:
“Non so,” mi disse, “che cosa stia accadendo in me; quando venite, mi sembra che Dio si ritragga e che il suo spirito taccia; inutilmente mi sforzo di eccitarmi, cerco delle idee, voglio esortare la mia anima; mi ritrovo una donna banale, limitata; ho paura di parlare.”
“Ah, mia cara madre,” le dissi, “quale presentimento! Se fosse Dio a rendervi muta!...”
Un giorno che mi sentivo più incerta e più abbattuta che mai, mi recai nella sua cella; dapprima la mia presenza la lasciò turbata: evidentemente lesse nei miei occhi, in tutta la mia persona, che il sentimento profondo racchiuso in me era al di sopra delle sue forze; e lei non voleva lottare senza la certezza di essere vittoriosa. Tuttavia cominciò ad esortarmi e a poco a poco si infervorò. Via via che il mio dolore decresceva, la sua esaltazione aumentava; d’un tratto si mise in ginocchio ed io seguii il suo esempio. Mi convinsi che ero sul punto di condividere il suo slancio, e me lo auguravo. Pronunciò alcune parole, poi, all’improvviso, tacque. Aspettavo inutilmente: non aggiunse altro; si rialzò, si sciolse in lacrime, mi afferrò la mano e stringendomi fra le braccia:
“Ah, mia cara figliola,” disse, “che effetto crudele avete prodotto su di me! Ecco, è finita, lo spirito mi ha abbandonata, lo sento; che Dio stesso vi parli giacché non si compiace più di farsi sentire per bocca mia.”
In vero non so che cosa fosse accaduto in lei: forse le avevo ispirato una sfiducia nelle sue forze che non scomparve più, forse l’avevo resa timida, o avevo veramente spezzato i suoi rapporti con il cielo. Il fatto si è che il dono di saper consolare, non le tornò più. Il giorno prima della mia professione, l’andai a trovare. La sua malinconia non era da meno della mia. Mi misi a piangere, ed ella pure. Mi gettai ai suoi piedi, mi benedisse, mi fece rialzare, mi abbracciò e mi congedò dicendo:
“Sono stanca di vivere, mi auguro di morire. Ho chiesto a Dio di non farmi conoscere un giorno simile, ma tale non è la sua volontà. Andate, adesso. Parlerò a vostra madre, passerò la notte in preghiera, pregate anche voi. Ma adesso coricatevi, ve lo ordino.”
“Permettete,” le risposi, “che mi unisca a voi.”
“Ve lo permetto dalle nove alle undici, non oltre. Alle nove e mezzo comincerò a pregare e così pure farete voi; ma alle undici mi lascerete pregare da sola e voi vi riposerete. Coraggio, mia cara figliola, veglierò davanti a Dio per il resto della notte.”
Volle pregare, ma non ne fu capace. Io dormivo, e intanto quella santa donna se ne andava per i corridoi bussando ad ogni porta, svegliava le monache e le faceva scendere silenziosamente in chiesa. Vi si recarono tutte, e allorché tutte vi furono riunite, le invitò a rivolgersi al cielo per me. Dapprima ciascuna pregò per conto proprio, poi la superiora spense i lumi e tutte insieme cantarono il Miserere, salvo la madre che prosternata ai piedi degli altari, si torturava crudelmente dicendo:
“Oh, mio Dio, se mi avete abbandonata per una colpa che ho commesso, concedetemi il perdono. Non vi chiedo di restituirmi il dono che mi avete tolto, ma che voi stesso vi rivolgiate a quell’innocente che dorme mentre io vi invoco qui per lei. Mio Dio, parlatele, parlate ai suoi genitori, e perdonatemi.”
L’indomani entrò di buon’ora nella mia cella; ancora immersa nel sonno. Io non la sentii. Si sedette accanto al mio letto. Mi aveva posato leggermente una mano sulla fronte e mi guardava. Sul suo volto si manifestavano di volta in volta inquietudine, turbamento e dolore, e fu così che mi apparve allorché aprii gli occhi. Non mi fece parola di quanto era accaduto durante la notte; mi chiese soltanto se mi fossi coricata presto. Le risposi:
“All’ora che mi avete ordinato.”
Mi chiese se avessi dormito:
“Profondamente,” risposi.
“Me lo aspettavo,” esclamò, e poi volle sapere come mi sentissi.
“Benissimo! E voi, mia cara madre?”
“Ahimè,” soggiunse, “non ho visto nessuno pronunciare i voti senza inquietudine, ma per nessuno ho provato il turbamento che provo per voi. Vorrei di tutto cuore che foste felice.”
“Se mi amerete sempre, lo sarò.”
“Ah, se non dipendesse che da questo! Non avete pensato a niente durante la notte?”
“No.”
“Non avete fatto nessun sogno?”
“Nessuno.”
“Che cosa provate adesso, nel vostro cuore?”
“Mi sento come stupidita. Obbedisco al mio destino senza ripugnanza e senza slancio; sento che la necessità mi travolge e mi lascio andare. Ah, mia cara madre! non c’è in me l’ombra di quella dolce gioia, di quella trepidazione, di quella malinconia, di quella dolce inquietudine che talvolta ho notato in altre giunte a questo stesso momento. Mi sento vuota, non saprei nemmeno piangere. Lo vogliono, è necessario. Ecco la sola idea che mi passi per la mente... Ma voi non mi dite niente.”
“Non sono venuta per far conversazione con voi, ma per vedervi ed ascoltarvi. Aspetto vostra madre. Cercate di non commuovermi; lasciate che i sentimenti s’accumulino nella mia anima. Quando ne sarà colma, vi lascerò. Debbo tacere; io mi conosco. Ho un solo impulso, ma violento; non deve trovare sfogo con voi. Riposatevi ancora un momento, ch’io vi veda; ditemi soltanto qualche parola e lasciate che io colga qui ciò che sono venuta a cercarvi. Poi me ne andrò e Dio farà il resto.”
Tacqui, ricaddi sul guanciale, le tesi una mano ch’ella afferrò. Sembrava che meditasse, e che meditasse profondamente; si sforzava di tenere gli occhi chiusi, ma a volte li apriva, volgeva lo sguardo verso l’alto prima di posarlo nuovamente su di me; si agitava; aveva l’anima in tumulto, senza posa perdeva e ritrovava il controllo di sé. In verità quella donna era nata per essere profetessa: ne aveva il volto e il carattere. Era stata bella, ma l’età, svigorendo i tratti del volto e incidendovi rughe profonde, aveva conferito dignità alla sua fisionomia. Aveva occhi piccoli, ma che davano l’impressione di guardare dentro lei stessa o di attraversare gli oggetti vicini e di scrutare al di là di essi, a una distanza infinita, sempre nel passato o nell’avvenire. Di tanto in tanto mi stringeva con forza la mano. Mi chiese bruscamente che ore fossero:
“Saranno presto le sei.”
“Addio, me ne vado. Fra poco verranno a vestirvi ed io non voglio esser presente per farmi distrarre. La mia sola preoccupazione è di mantenermi calma nei primi momenti.”
Era appena uscita che la madre delle novizie e le mie compagne fecero il loro ingresso; mi tolsero gli abiti del convento e mi rivestirono con quelli secolari; è un uso che voi conoscete. Non sentii niente di quello che si diceva intorno a me; ero ridotta quasi allo stato di automa; non mi accorsi di niente. Solo, a tratti, ero percorsa da leggeri fremiti convulsi. Mi dicevano ciò che bisognava fare, spesso erano costrette a ripeterlo, perché la prima volta non sentivo; io lo facevo. Non perché pensassi ad altro, ma perché ero come assente. Avevo la testa stanca come quando si è riflettuto troppo. Nel frattempo la superiora si intratteneva con mia madre. Non ho mai saputo ciò che fosse accaduto durante quell’incontro che durò a lungo; mi riferirono soltanto che quando si separarono, mia madre era così turbata che non riusciva a ritrovare la porta dalla quale era entrata, e che la superiora era uscita con i pugni stretti alle tempie.
Suonarono le campane. Scesi. C’era poca gente. Mi fu rivolto, bene o male, un fervorino; non sentii niente. Disposero di me durante tutta quella mattinata che è stata inesistente nella mia vita, giacché non ho mai saputo quanto fosse durata; non so né cosa ho fatto, né cosa ho detto. Mi hanno sicuramente interrogata, sicuramente ho risposto. Ho pronunciato i voti, ma non ne conservo alcun ricordo e mi sono ritrovata monaca con la stessa innocenza con cui fui fatta cristiana; non capii niente di quella mia professione come non avevo capito niente in quella del mio battesimo, con la differenza che l’una conferisce la grazia e l’altra la presuppone. Ebbene, signore, benché io non abbia protestato a Longchamp come avevo fatto a Santa Maria, credete che sia per questo più vincolata? Faccio appello al vostro giudizio; faccio appello al giudizio di Dio. Mi trovavo in uno stato di prostrazione così profonda che qualche giorno dopo, allorché mi fu detto che ero di turno in coro, non capii che cosa volesse dire. Chiesi se era proprio vero che avevo pronunciato i voti; fu necessario aggiungere a queste prove la testimonianza di tutta la comunità; quella di alcuni estranei che erano stati invitati alla cerimonia. Rivolgendomi più volte alla superiora, le ripetevo: “Ma allora, è proprio vero?”
E mi aspettavo sempre che rispondesse:
“No, figliola mia, vi ingannano.”
Le sue reiterate assicurazioni non mi convincevano affatto, non riuscendo a capire come avessi potuto dimenticare ogni circostanza di tutta una giornata così tumultuosa, così varia, così densa di avvenimenti insoliti e straordinari, persino la faccia di coloro che si erano affaccendate intorno a me, e quella del prete che mi aveva rivolto il suo fervorino, e di colui davanti al quale avevo pronunciato i voti. La sola cosa che ricordi è di aver cambiato gli abiti del convento con quelli secolari. Da quel momento sono stata ciò che fisicamente si dice alienata. Sono stati necessari mesi interi per trarmi da quello stato, ed io attribuisco alla lunghezza di quella specie di convalescenza l’oblio profondo di quanto è accaduto. Proprio come coloro che hanno sofferto di una lunga malattia, che hanno parlato con lucidità, che hanno ricevuto i sacramenti e che, dopo aver ritrovato la salute, non ne conservano il benché minimo ricordo. Ne ho visti diversi esempi in convento e ho detto a me stessa: “Ecco quello che probabilmente è accaduto il giorno della professione.” Resta poi da sapere se tali azioni siano azioni compiute dall’uomo e se egli sia realmente presente, anche se in apparenza lo è.
In quello stesso anno subii tre perdite gravi: quella di mio padre, o per meglio dire di colui che passava per tale. Era anziano. Aveva lavorato molto. Si spense. Quella della mia superiora, e quella di mia madre.
Questa degna religiosa avvertì molto tempo prima l’approssimarsi della sua ora. Si condannò al silenzio. Si fece portare la bara nella cella. Aveva perso il sonno e passava i giorni e le notti a meditare e a scrivere. Ha lasciato quindici meditazioni che a me sembrano di grande bellezza. Ne possiedo una copia. Se un giorno vi cogliesse la curiosità di vedere quali pensieri suggerisce quell’istante supremo, ve le farò leggere. Si intitolano: Gli ultimi istanti della suora de Moni.
All’avvicinarsi della morte, si fece vestire. Stava distesa sul suo letto dove le somministrarono gli ultimi sacramenti. Tra le braccia, teneva un crocifisso. Era notte. Il bagliore delle candele rischiarava quella scena lugubre. Noi le stavamo intorno, ci scioglievamo in lacrime, la sua cella risuonava di grida, quando, d’un tratto, le brillarono gli occhi. Si sollevò bruscamente, parlò. La sua voce era forte quasi come prima della malattia. Le tornò il dono perduto. Ci rimproverò per quelle nostre lacrime che sembravano lacrime di invidia per la sua felicità eterna.
“Figlie mie,” disse, “il vostro dolore vi ottenebra la ragione, ma è lassù,” diceva indicando il cielo, “che io potrò aiutarvi; i miei occhi si abbasseranno sempre su questa casa; intercederò per voi, e sarò esaudita. Avvicinatevi tutte quante, che io vi abbracci; venite ad accogliere la mia benedizione e il mio addio.”
Fu nel pronunciare queste ultime parole che passò a miglior vita quella donna rara, lasciando dietro di sé rimpianti che non finiranno mai.
Mia madre morì al ritorno da un breve viaggio che fece verso la fine dell’autunno presso una delle sue figliole. La sua salute era stata molto scossa da certi dispiaceri. Non ho mai saputo il nome di mio padre, né la storia della mia nascita. Colui che era stato il suo direttore spirituale, e anche il mio, mi consegnò un pacchetto da parte sua: erano cinquanta luigi con un biglietto, avvolti e cuciti in un pezzo di stoffa. C’era scritto:
“Figlia mia, è ben poca cosa, ma la mia coscienza non mi consente di disporre di una somma maggiore; è il resto di quanto ho potuto economizzare sui piccoli regali del signor Simonin. Vivete santamente, è la cosa migliore che possiate fare, anche per la vostra felicità in questo mondo. Pregate per me; la vostra nascita è la sola colpa grave ch’io abbia commesso; aiutatemi ad espiarla e che Dio mi perdoni di avervi messa al mondo in considerazione delle buone opere che voi farete. Soprattutto non turbate la pace della famiglia, e benché la scelta dello stato che avete abbracciato non sia stata volontaria come avrei desiderato, guardatevi bene dal cambiarla. Perché non sono stata io, rinchiusa in un convento per tutta la vita? Non sarei tanto angosciata al pensiero che fra poco dovrò subire il temibile giudizio. Pensate, figlia mia, che la sorte di vostra madre nell’altro mondo, dipende molto dalla vostra condotta su questa terra: Dio, che vede tutto, mi attribuirà, nella sua giustizia, tutto il bene e tutto il male che farete voi. Addio, Susanna; non chiedete niente alle vostre sorelle. Non sono in grado di aiutarvi. Non sperate niente da vostro padre. Egli mi ha preceduta, ha già visto il grande giorno, mi attende; la mia presenza sarà per lui meno terribile della sua per me. Addio, ancora una volta! Ah, infelice madre! ah, infelice figlia! Sono arrivate le vostre sorelle; non sono contenta di loro: prendono, portano via, leticano per questioni di interesse che mi affliggono. Quando si avvicinano al mio letto, mi volto dall’altra parte. Che cosa vedrei in loro? Due creature nelle quali la povertà ha spento il sentimento della natura. Anelano a quel poco che lascio, al medico e all’infermiera fanno domande senza pudore, che svelano con quale impazienza attendano il momento in cui me ne andrò e che le renderà padrone di tutto ciò che mi circonda. Hanno avuto sentore, non so come, che potessi avere un po’ di denaro nascosto tra i materassi; hanno tentato di tutto per farmi alzare e ci sono riuscite. Per fortuna il mio depositario era venuto il giorno prima ed io gli avevo consegnato il pacchetto con questa lettera che ha scritto sotto la mia dettatura. Bruciate la lettera, e quando saprete della mia morte, evento ormai imminente, farete dire una messa per me e rinnoverete i vostri voti, giacché desidero sempre che non abbandoniate il convento: l’idea d’immaginarvi nel mondo, senza mezzi, senza sostegno, giovane, renderebbe ancor più penosi i miei ultimi istanti.”
Mio padre morì il 5 gennaio, la mia superiora verso la fine di quel mese, e mia madre il giorno dopo Natale.
Alla madre de Moni successe suor Santa Cristina. Ah, signore! Quale differenza fra l’una e l’altra! Vi ho detto che donna fosse la prima. Questa aveva invece un carattere meschino, una mentalità ristretta e piena di confuse superstizioni. Aveva una certa inclinazione per le idee nuove, conferiva con sulpiziani, con gesuiti. Prese in antipatia tutte le favorite di colei che l’aveva preceduta: in poco tempo la casa fu piena di discordie, di odi, di maldicenze, di accuse, di calunnie e di persecuzioni. Fu necessario spiegare questioni teologiche in cui non capivamo niente, sottoscrivere certe formule, piegarci a pratiche singolari. La madre de Moni non approvava affatto quelle penitenze che si praticano sul corpo. Si era flagellata soltanto due volte in vita sua: una volta, il giorno prima della mia professione, un’altra in una circostanza analoga. Di quelle penitenze diceva che non correggevano alcun difetto e servivano unicamente a incoraggiare l’orgoglio. Voleva che le sue suore stessero bene e avessero il corpo sano e lo spirito sereno. Subito dopo aver assunto la sua carica, per prima cosa si era fatta consegnare tutti i cilici e le discipline, e inoltre aveva proibito di alterare gli alimenti con la cenere, di dormire per terra e di procurarsi strumenti del genere. La seconda invece, fece riconsegnare ad ogni suora il cilicio e la disciplina e fece ritirare il Nuovo e l’Antico Testamento. Le favorite del regno precedente non sono mai le favorite del regno che segue. Io fui indifferente, per non dire di peggio, alla superiora attuale, per la semplice ragione che la precedente mi aveva prediletta, ma non tardai a peggiorare la mia sorte con azioni che voi chiamerete imprudenza o fermezza, a seconda del punto di vista dal quale le considererete.
La prima, fu quella di abbandonarmi a tutto il dolore che provavo per la scomparsa della nostra superiora; di farne l’elogio in ogni circostanza; di occasionare confronti fra lei e quella che allora ci governava, confronti certamente non favorevoli a quest’ultima; di descrivere la vita al convento negli anni precedenti; di suscitare il ricordo della pace di cui godevamo, la sua indulgenza per noi, il cibo sia spirituale che temporale del quale allora ci nutriva; e di esaltare le abitudini, i sentimenti, il carattere di suor de Moni. La seconda fu quella di gettare nel fuoco il cilicio e di disfarmi della mia disciplina; di richiamare l’attenzione delle mie amiche sull’argomento e di spingerne alcune a seguire il mio esempio. La terza, fu quella di procurarmi un Antico e un Nuovo Testamento. La quarta, di rifiutare ogni scelta, di attenermi al titolo di cristiana, senza accettare il nome di giansenista o di molinista. La quinta fu quella di osservare strettamente la regola della casa rifiutandomi di fare qualcosa in più o in meno di quanto esigeva, e quindi, di non prestarmi a nessun atto facoltativo, giacché quelli obbligatori mi sembravano già abbastanza duri; di non salire all’organo che nei giorni di festa, di non cantare se non quando avrei dovuto farlo nel coro, di non tollerare più che si abusasse della mia compiacenza e dei miei doni, e che si esigesse da me tutto, e tutti i giorni. Lessi le Costituzioni [19] , le rilessi tanto da saperle a memoria. Se mi veniva ordinata una cosa che non vi fosse espressa in maniera chiara, o che non vi fosse espressa affatto, o che mi sembrasse in contraddizione con tali regole, risolutamente mi rifiutavo di obbedire, prendevo il libro e dicevo: “Questi, e non altri, sono gli impegni che ho assunto.”
I miei discorsi fecero sì che alcune delle mie compagne si schierassero dalla mia parte. L’autorità delle maestre ne risultò assai sminuita; non potevano più disporre di noi come se fossimo state loro schiave. Quasi non passava giorno senza qualche scena clamorosa. Nei casi incerti le mie compagne mi consultavano ed io ero sempre dalla parte della regola contro il dispotismo. Ben presto ebbi l’aria, e forse anche il comportamento, di una faziosa.
I grandi Vicari dell’arcivescovo venivano chiamati di continuo. Io mi presentavo, mi difendevo, difendevo le mie compagne, e non è accaduto una sola volta che fossi condannata, giacché stavo bene attenta ad essere sempre dalla parte della ragione. Dal punto di vista dei miei doveri, ero inattaccabile: li adempivo scrupolosamente, né chiedevo mai i piccoli favori che una superiora è sempre libera di accordare o di rifiutare. Non comparivo mai nel parlatorio; visite non ne ricevevo giacché non conoscevo nessuno. Avevo però bruciato il cilicio e gettato la disciplina; avevo consigliato ad altre di fare la stessa cosa; non volevo sentir parlare di giansenismo né in bene, né in male. Quando mi chiedevano se ero sottomessa alla Costituzione, rispondevo di esserlo alla Chiesa; se accettavo la Bolla, rispondevo che accettavo il Vangelo [20] . Ispezionarono la mia cella: vi scoprirono l’Antico e il Nuovo Testamento. Mi ero lasciata sfuggire alcune affermazioni indiscrete sull’intimità sospetta di alcune delle favorite; la superiora aveva dei colloqui lunghi e frequenti con un giovane ecclesiastico ed io ne avevo messo in luce la ragione e il pretesto. Non tralasciai niente di quanto poteva farmi temere, odiare, perdere, e ottenni il mio scopo. Non vi furono più lamentele sul mio conto presso i superiori, ma si ingegnarono a rendermi dura la vita. Fu proibito alle altre monache di avvicinarmi e ben presto mi ritrovai sola. Avevo un numero ristretto di amiche; sospettarono che avrebbero cercato di sottrarsi di nascosto all’imposizione che avevano dovuto subire e che non potendo intrattenersi con me di giorno, sarebbero venute a trovarmi di notte o ad ore proibite. Ci spiarono: mi sorpresero ora con l’una, ora con l’altra. Di tale imprudenza ne fecero l’uso che vollero e fui castigata nel modo più disumano: mi condannarono per settimane intere a restare in ginocchio per tutto il tempo dell’uffizio, separata dalle altre, in mezzo al coro; a vivere di pane e d’acqua; a starmene chiusa in cella; ad attendere alle mansioni più umili del convento. Quelle che venivano definite le mie complici non erano trattate molto meglio di me. Quando non potevano cogliermi in fallo, sospettavano di me; mi venivano impartiti tutti insieme ordini incompatibili fra loro e mi punivano per non averli eseguiti. A mia insaputa si anticipavano le ore delle funzioni, dei pasti; si sovvertiva l’organizzazione abituale della vita claustrale di modo che, pur stando bene attenta, ogni giorno infrangevo qualche regola e ogni giorno venivo punita. Non mi manca il coraggio, ma nessuno resiste all’abbandono, alla solitudine, alla persecuzione. Le cose arrivarono a un punto tale che il tormentarmi divenne un divertimento. Era ormai lo svago di cinquanta persone congiurate contro di me. Mi è impossibile entrare nei dettagli di quelle cattiverie: mi impedivano di dormire, di vegliare, di pregare. Un giorno mi rubavano parte degli abiti, poi era la volta delle chiavi o del breviario. Danneggiavano la mia serratura. Mi impedivano di far bene ciò che dovevo fare o rovinavano le cose che avevo fatto bene. Mi venivano attribuiti discorsi mai fatti e azioni mai compiute. Mi rendevano responsabile di tutto, e la mia vita era un susseguirsi di colpe reali o simulate, e di castighi.
La mia salute non resse davanti a prove tanto lunghe e tanto dure; piombai nello sconforto, nel dolore, nella malinconia. Da principio andavo a cercare forza ai piedi dell’altare, e talvolta ve la trovai. Oscillavo tra la rassegnazione e la disperazione, sottomettendomi di volta in volta all’asprezza del mio destino, o pensando di liberarmene con mezzi violenti. In fondo al giardino c’era un pozzo profondo: quante volte ci sono andata! Quante volte vi ho guardato dentro! Accanto, c’era una panchina di pietra; quante volte mi ci sono seduta, con la testa appoggiata all’orlo del pozzo! Quante volte, nel tumulto dei pensieri, mi sono alzata bruscamente, decisa a porre un termine alle mie angustie! Chi mi ha trattenuta? Perché preferivo piangere, gridare a gran voce, calpestare il velo, strapparmi i capelli e graffiarmi il viso con le unghie? Se era Dio che mi impediva di perdermi, perché non evitarmi anche tutte quelle manifestazioni?
Vi dirò una cosa che forse vi parrà molto strana e che nondimeno è vera: sono assolutamente certa che le mie frequenti visite a quel pozzo sono state notate e che le mie crudeli nemiche hanno caldamente sperato che un giorno o l’altro avrei messo in atto il proposito che covava dentro di me. Quando mi dirigevo da quella parte, ostentatamente se ne allontanavano e guardavano altrove. Diverse volte ho trovato la porta del giardino aperta in ore in cui avrebbe dovuto essere chiusa, e stranamente nei giorni in cui avevano particolarmente infierito su di me, in cui avevano spinto all’esasperazione l’irruenza del mio carattere e credevano che la mia mente fosse alienata. Ma non appena credetti di intuire che quel mezzo per liberarmi dalla vita era, per così dire, offerto alla mia disperazione, che mi conducevano per mano a quel pozzo e che lo avrei trovato sempre pronto ad accogliermi, smisi di curarmene. La mia attenzione si volse altrove. Rimanevo nei corridoi e misuravo l’altezza delle finestre; la sera, mentre mi spogliavo, saggiavo senza rendermene conto la forza delle mie giarrettiere; un altro giorno rifiutavo il cibo: scendevo al refettorio e rimanevo con la schiena contro la parete, le mani penzoloni lungo i fianchi, gli occhi chiusi, e non toccavo le pietanze che mi venivano servite. Quando ero in quello stato perdevo a tal punto la coscienza di me stessa che tutte le monache uscivano e io rimanevo lì. Si allontanavano ostentatamente senza far rumore e mi lasciavano sola; poi venivo punita per non essere stata presente agli esercizi. Che dirvi d’altro? Mi levarono con tutti i mezzi la voglia di togliermi la vita, poiché mi sembrò che, lungi dall’opporvisi, tali mezzi mi venissero offerti. Evidentemente non vogliamo venir cacciati da questo mondo e forse, se avessero finto di trattenermi, oggi non sarei più viva. Forse, quando ci si toglie la vita, si vuol far sì che gli altri si disperino. Ma se così facendo crediamo di dar loro soddisfazione, allora la nostra vita ce la teniamo. Si tratta di moti assai sottili del nostro animo. In verità, se è possibile che ricordi in quali condizioni mi trovavo quando ero accanto a quel pozzo, credo che dentro di me gridassi contro quelle disgraziate che si allontanavano per favorire un delitto: “Fate un passo verso di me, mostratemi il benché minimo desiderio di salvarmi, accorrete per trattenermi e siate certe che arriverete troppo tardi.” In realtà vivevo soltanto perché desideravano la mia morte. Fuori dal chiostro l’accanimento nel tormentare e nel volere l’altrui perdita finisce con l’esaurirsi, nei chiostri invece non si esaurisce mai. Ero giunta a questo punto allorché riandando col pensiero alla mia vita passata, mi venne l’idea di fare annullare i miei voti. Fu dapprima un pensiero superficiale: sola, abbandonata, senza appoggi, in che modo condurre in porto un progetto così difficile, anche se avessi goduto di tutto quell’aiuto che a me mancava? L’idea bastò comunque a tranquillizzarmi; il mio spirito si acquietò, ritrovai la padronanza di me stessa. Evitai qualche castigo e sopportai con maggior pazienza quelli che mi venivano inflitti. Il cambiamento fu notato e suscitò stupore. Di colpo si arrestò la cattiveria, come un nemico vile che ti insegue e al quale fai fronte nel momento in cui meno se lo aspetta.
Una domanda che dovrei rivolgerle, signore, è perché fra tante idee funeste che passano per la testa di una monaca disperata, non vi è quella di appiccare il fuoco alla casa. A me non è venuta in mente, e neppure ad altre, benché sia la cosa più facile da farsi: in un giorno di gran vento basta portare una torcia in un solaio, in una legnaia o in un corridoio. Non vi sono mai stati conventi bruciati: eppure in queste circostanze si spalancano le porte e si salvi chi può. Forse perché preferiamo ignorare un aiuto che dovremmo condividere con quelle che odiamo? Ma quest’ultima supposizione è troppo sottile per essere vera.
A forza di riflettere su una cosa, se ne sente la fondatezza e si arriva persino a crederla possibile. A questo punto si è davvero molto forti. Per me si trattò di una quindicina di giorni. La mia mente galoppa. Che cosa doveva fare? redigere un memoriale e farlo esaminare da qualcuno: due iniziative non prive di pericolo. Da quando c’erano stati in me tutti quei mutamenti, venivo osservata più attentamente di sempre. C’era un occhio che mi seguiva di continuo; ogni mio passo veniva spiato, ogni mia parola soppesata. Fui di nuovo avvicinata, furono sondati i miei pensieri. Mi interrogavano, ostentavano commiserazione e amicizia; riandavano alla mia vita passata, mi accusavano fiaccamente, mi scusavano; speravano che mi comportassi meglio, mi prospettavano un avvenire più tranquillo. Ciò nonostante, giorno e notte, ad ogni istante, con ogni pretesto, bruscamente, sordamente, entravano nella mia cella, scostavano le tende, se ne andavano. Dopo aver preso l’abitudine di coricarmi vestita, avevo presa anche quella di scrivere la mia confessione. Nei giorni che sono stabiliti andavo a chiedere carta e inchiostro alla superiora, la quale non me li rifiutava. Cominciai quindi ad attendere il giorno della confessione e intanto andavo redigendo a memoria tutto quello che intendevo esporre. Si trattava, in sintesi, di quanto ho scritto a voi fino a questo punto, con la sola differenza che mi servivo di nomi inventati. Commisi però tre sciocchezze: la prima fu di dire alla superiora che avrei avuto molto da scrivere e adducendo questo pretesto, di chiederle più carta di quanta ne viene concessa di solito; la seconda, di occuparmi del mio memoriale e di trascurare la confessione; la terza, di non rimanere al confessionale che un istante, dato che appunto non avevo preparato la confessione e perciò non ero pronta a quell’atto di religione. Di tutto ciò non sfuggì nulla, e se ne dedusse che la carta che avevo chiesto era stata destinata ad uno scopo diverso da quello che avevo dichiarato. Ma se, come appariva chiaro, non era servita alla mia confessione, che cosa ne avevo fatto?
Pur non avendo immaginato di suscitare tante inquietudini, sentii comunque che non si doveva trovare nella mia cella uno scritto di tale importanza. In un primo momento pensai di cucirlo nel traversino o nei materassi, poi di nasconderlo fra gli abiti, di sotterrarlo in giardino, di buttarlo nel fuoco. Non immaginerete mai quale fosse la mia fretta di scriverlo e l’imbarazzo che mi creò quando fu scritto. Prima lo sigillai, poi me lo infilai in seno e mi recai all’uffizio che stava suonando. La mia inquietudine era tale che ogni mio movimento la tradiva. Ero seduta accanto a una giovane monaca che mi voleva bene; a volte mi era capitato di cogliere la pietà nel suo sguardo e di vederla piangere per me. Non mi rivolgeva mai la parola, ma certamente soffriva delle mie pene. Noncurante di ciò che poteva accadere, decisi di affidarle il mio memoriale. In un momento di preghiera, durante il quale tutte le monache si inginocchiano curvandosi fino a sembrare immerse nei loro stalli, mi sfilai delicatamente il plico dal petto e glielo tesi dietro di me. Ella lo prese e a sua volta se lo nascose in petto. Fu questo il favore più grande fra quanti ne avevo ricevuti da lei e che già erano assai numerosi: per mesi interi, senza compromettersi, si era data da fare per rimuovere tutti i piccoli ostacoli che venivano frapposti fra me e i miei doveri per avere il diritto di castigarmi. Veniva a bussare alla mia porta quando era l’ora di uscire; rimetteva ordine dove era stato creato disordine; andava a suonare o a rispondere quando era necessario, si trovava ovunque mi dovevo trovare io. Io ignoravo tutto ciò.
Avevo scelto il partito migliore. Quando uscimmo dal coro, la superiora mi disse:
“Suor Susanna, seguitemi.”
La seguii; poi, fermandosi davanti a un’altra porta:
“Ecco,” mi disse, “la vostra cella. Quella dove dormivate prima, la prenderà suor San Girolamo.”
Entrai, e lei entrò con me. Stavamo entrambe sedute senza parlare quando apparve una monaca con degli indumenti che posò su una sedia.
La superiora mi disse allora: “Suor Santa Susanna, spogliatevi e indossate questi abiti.”
Obbedii in sua presenza mentre lei seguiva attenta tutti i miei movimenti.
La suora che aveva portato quegli indumenti era già sulla porta. Tornò indietro, prese quelli che mi ero tolti ed uscì. La superiora la seguì. Non mi fu detto il perché di tutto quell’armeggiare, né io lo chiesi. Nel frattempo la mia cella era stata accuratamente frugata; materassi e guanciale erano stati scuciti; fu spostato tutto ciò che si poteva spostare o che si supponeva lo fosse stato. Ripercorsero i miei passi: verso il confessionale, in chiesa, in giardino, al pozzo, verso la panchina di pietra. Io stessa vidi una parte di quelle ricerche. Il resto, lo sospettai. Non trovarono niente. Rimasero peraltro convinte che c’era qualcosa. Continuarono a spiarmi per diversi giorni. Andavano dove ero andata, scrutando ovunque, ma invano. Alla fine la superiora si persuase che la verità l’avrebbe saputa soltanto da me. Un giorno entrò nella mia cella e mi disse:
“Suor Susanna, avete dei difetti, ma non quello di mentire. Ditemi dunque la verità: che cosa ne avete fatto di tutta la carta che vi ho dato.”
“Signora, ve l’ho già detto.”
“Non può essere. Me ne avete chiesta molta e non siete rimasta al confessionale che pochi istanti.”
“È vero.”
“Allora, che cosa ne avete fatto?”
“Quello che vi ho detto.”
“Se è così, giurate per la santa obbedienza votata a Dio che questa è la verità e io vi crederò, nonostante le apparenze.”
“Non vi è concesso, signora, esigere un giuramento per cosa di così lieve importanza, né a me è consentito farlo. Non posso giurare.”
“Voi mi ingannate, suor Susanna, e non sapete a quali rischi vi esponete. Che cosa avete fatto della carta che vi ho dato?”
“Ve l’ho detto.”
“Dov’è?”
“Non l’ho più.”
“Che cosa ne avete fatto?”
“Ciò che si fa di quella specie di scritti che diventano inutili quando hanno servito al loro scopo.”
“Giuratemi, per la santa obbedienza, che tutta la carta è servita a scrivere la vostra confessione e che non l’avete più.”
“Vi ripeto, signora, che non posso giurare, giacché questa seconda cosa non è più importante della prima.”
“Giurate,” mi disse, “o...”
“Non giurerò.”
“Non giurerete?”
“No, signora.”
“Allora, siete colpevole?”
“E di che cosa posso essere colpevole?”
“Di tutto; non vi è niente di cui non siate capace. Avete ostentato di lodare colei che mi ha preceduta, per umiliarmi; di avere in spregio gli usi che aveva proscritto, le leggi che aveva abolito e che io ho creduto opportuno ristabilire; avete istigato alla ribellione tutta la comunità; avete infranto le regole; avete seminato discordia, avete mancato a tutti i vostri doveri costringendomi a punirvi e a punire quelle che avete sobillato, e questa è la cosa che mi costa di più. Avrei potuto infierire contro di voi ricorrendo ai sistemi più duri; vi ho risparmiata, ho creduto che avreste riconosciuto i vostri torti, che avreste ritrovato la disposizione d’animo che conviene al vostro stato, e che sareste tornata a me. Non l’avete fatto. Nel vostro animo accadono cose non lodevoli; avete dei progetti; l’interesse del convento esige che io li conosca e li conoscerò, ve lo garantisco io. Suor Susanna, ditemi la verità.”
“Ve l’ho detta.”
“Adesso me ne vado, ma farete bene a temere il mio ritorno... Mi metto a sedere, vi concedo ancora un momento per decidervi... Le vostre carte, se esistono...”
“Non le ho più.”
“Oppure il giuramento che contenevano soltanto la vostra confessione.”
“Non lo posso fare.”
Rimase un momento in silenzio, poi uscì e tornò con quattro delle sue favorite che avevano l’aria smarrita e furente. Mi gettai ai loro piedi, implorai la loro misericordia. Gridavano tutte insieme:
“Nessuna misericordia, signora! Non vi lasciate commuovere: che consegni le sue carte o che se ne vada in pace.”
Abbracciavo ora i ginocchi dell’una, ora dell’altra. Chiamandole per nome, dicevo:
“Suor Santa Agnese, suor Santa Giulia, che cosa vi ho fatto? Perché aizzate la superiora contro di me? Mi sono forse comportata così, io? Quante volte non ho interceduto per voi? Lo avete dimenticato. E voi eravate in colpa, mentre io non lo sono.”
La superiora, immobile, mi guardava e mi diceva:
“Consegna le tue carte, sciagurata, o rivela ciò che contenevano.”
“Signora,” le dicevano, “non gliele chiedete più; siete troppo buona; voi non la conoscete; è un’anima indocile che non si può domare se non ricorrendo a estremi rimedi. È lei che vi costringe. Peggio per lei.”
“Mia cara madre,” le dicevo, “non ho fatto niente che possa offendere Dio o gli uomini, ve lo giuro.”
“Non è questo il giuramento che voglio.”
“Ha scritto di sicuro contro di voi, contro di noi; un memoriale al gran vicario, all’arcivescovo, e Dio sa come avrà descritto la vita dentro il convento. È facile credere al male! Signora, dobbiamo domare questa creatura, se non volete che sia lei a disporre di noi.”
La superiora aggiunse:
“Vedete, suor Susanna...”
Mi alzai bruscamente e le dissi:
“Ho visto tutto, signora; capisco bene che mi sto perdendo, ma un momento prima o un momento dopo, non vale la pena di stare a pensarci. Fate di me quel che volete; date ascolto al loro furore, consumate pure la vostra ingiustizia.” Senza attendere, tesi loro le braccia. Le sue compagne le afferrarono. Mi strapparono il velo; mi spogliarono senza pudore. Sul petto mi trovarono un ritrattino della mia superiora. Lo presero. Le supplicai di lasciarmelo baciare ancora una volta; me lo rifiutarono. Mi buttarono addosso una camicia, mi levarono le calze, mi coprirono con un sacco, e con la testa e i piedi nudi, mi fecero percorrere i corridoi. Gridavo, chiedevo aiuto, ma avevano fatto suonare la campana per avvertire che nessuno si facesse vedere. Invocavo il cielo, cadevo per terra, e allora mi trascinavano. Quando arrivai in fondo alle scale, avevo i piedi insanguinati e le gambe piene di lividi. Ero in uno stato tale da commuovere un cuore di sasso. Intanto avevano aperto con delle grosse chiavi un piccolo sotterraneo buio, dove mi gettarono su una stuoia imputridita dall’umidità. Vi trovai un pezzo di pane nero e una brocca d’acqua oltre a qualche vaso indispensabile e grossolano. La stuoia arrotolata a un’estremità fungeva anche da guanciale. Su un blocco di pietra c’era un teschio con un crocifisso di legno.
Il mio primo impulso fu quello di uccidermi; mi portai le mani alla gola, mi strappai gli abiti con i denti, gridai orrendamente, urlai come una belva. Battei la testa contro le pareti, mi coprii di sangue. Cercai di distruggermi finché le forze non mi mancarono. Non ci volle molto tempo. Fu lì che trascorsi tre giorni, e credevo che vi sarei rimasta per tutta la vita. Ogni mattina veniva una delle mie aguzzine, e mi diceva:
“Obbedite alla vostra superiora, e uscirete presto di qui.”
“Non ho fatto niente, non so quello che vogliono da me. Ah, suor San Clemente, vi è un Dio...”
Il terzo giorno, verso le nove di sera, fu aperta la porta: erano le stesse suore che mi avevano portata lì. Dopo aver fatto l’elogio della virtù della nostra superiora, mi annunciarono che ella mi faceva grazia e che mi avrebbero rimessa in libertà.
“È troppo tardi,” dissi, “lasciatemi, voglio morire qui.”
Frattanto mi avevano sollevata e mi trascinavano via. Mi portarono nella mia cella, dove trovai la superiora.
“Mi sono rivolta a Dio perché mi illuminasse sulla vostra sorte ed Egli mi ha toccato il cuore: vuole che io abbia pietà di voi e gli obbedisco. Mettetevi in ginocchio e chiedetegli perdono.”
Mi misi in ginocchio e dissi:
“Mio Dio, vi chiedo perdono delle colpe che ho commesso, come voi lo chiedeste per me sulla croce.”
“Che orgoglio!” esclamarono. “Si paragona a Gesù Cristo sulla croce e paragona noi ai Giudei che l’hanno crocifisso.”
“Non considerate me,” dissi loro, “ma considerate voi stesse e giudicate.”
“Non basta,” affermò la superiora, “giuratemi per la santa obbedienza, che non parlerete mai di quello che è accaduto.”
“Ciò che avete fatto è dunque molto grave, se esigete ch’io giuri di mantenere il silenzio? Nessuno, se non la vostra coscienza, ne saprà mai niente, ve lo giuro.”
“Lo giurate?”
“Sì, ve lo giuro.”
Dopo di che mi spogliarono delle vesti che mi avevano dato e mi lasciarono rivestire con le mie.
L’umidità mi era penetrata nelle ossa; ero in condizioni critiche. Avevo il corpo coperto di lividi; da diversi giorni non avevo preso che qualche goccia d’acqua e un po’ di pane. Credetti che quella persecuzione sarebbe stata l’ultima che avrei dovuto sopportare. Tale è l’effetto momentaneo di quelle scosse violente le quali mostrano quale sia la forza della natura nelle persone ancor giovani: mi ristabilii in pochissimo tempo e quando ricomparvi trovai tutta la comunità convinta che fossi stata malata. Ripresi gli esercizi del convento e il mio posto in chiesa.
Non avevo dimenticato le mie carte, né la giovane monaca alla quale le avevo affidate. Ero sicura che aveva ben custodito il mio deposito, ma che non lo aveva tenuto senza una certa inquietudine. Alcuni giorni dopo che fui uscita di prigione, nel coro, proprio nel momento in cui glielo avevo dato, e cioè allorché ci mettiamo in ginocchio e piegate le une verso le altre scompariamo negli stalli, mi sentii tirare piano piano per l’abito. Tesi la mano e mi fu consegnato un biglietto che conteneva queste poche parole:
“Come sono stata in pensiero per voi! E di queste carte crudeli che cosa ne devo fare?”
Dopo averlo letto lo appallottolai fra le mani e lo inghiottii. Tutto questo accadeva all’inizio della Quaresima. Si avvicinava il tempo in cui la curiosità di ascoltarci richiama a Longchamp la buona e la cattiva società di Parigi. Avevo una voce molto bella che non si era sciupata. È proprio nei conventi che si bada ai minimi interessi: ebbero per me qualche riguardo, godetti di un po’ più di libertà; le monache che istruivo nel canto poterono avvicinarmi senza doverne subire le conseguenze. Quella a cui avevo affidato il mio memoriale era fra queste; nelle ore di ricreazione che trascorrevamo in giardino, la prendevo in disparte, la facevo cantare, e mentre cantava le dicevo:
“Voi conoscete molta gente, io non conosco nessuno. Non vorrei che vi comprometteste; preferirei morire piuttosto che esporvi al sospetto di avermi aiutata. Voi sareste perduta, amica mia, lo so, e questo non mi salverebbe. E anche se la vostra perdita rappresentasse la mia salvezza, io non la vorrei a questo prezzo.”
“Lasciamo stare,” mi disse, “che cosa avete fatto del mio biglietto?”
“State tranquilla, l’ho inghiottito.”
“State tranquilla anche voi, mi occuperò del vostro caso.”
Notate bene, signore, che mentre lei mi parlava, io cantavo, che lei cantava mentre io rispondevo e che la nostra conversazione era inframmezzata da pezzi di canto.
Quella giovane, signore, è ancora nel convento e la sua sorte è fra le vostre mani. Se si venisse a scoprire quanto ha fatto per me, non le sarebbe risparmiato nessun tormento. Non vorrei averle aperto la porta di una segreta. Preferirei essere io a tornarvi. Perciò, signore, bruciate queste lettere. Se si eccettua l’interesse che vorrete dimostrare per la mia sorte, esse non contengono niente che valga la pena di esser conservato. Ecco quello che vi dicevo allora, ma ahimè! la mia giovane amica non è più di questo mondo, e io sono sola.
Ella non tardò a mantenere la parola e a tenermi informata secondo il nostro solito sistema. Giunse la settimana santa: vi fu una notevole affluenza di pubblico alle “tenebre” [21] . Cantai abbastanza bene da suscitare il fragore di quegli applausi scandalosi tributati ai vostri attori nei teatri e che non dovrebbero mai essere sentiti nei templi del Signore, soprattutto durante i giorni solenni e tristi in cui si celebra la memoria di suo figlio inchiodato sulla croce per l’espiazione delle colpe del genere umano. Le mie giovani allieve erano ben preparate; alcune avevano una bella voce; quasi tutte erano dotate di espressione e buon gusto e mi parve che il pubblico le avesse ascoltate con piacere e che la comunità fosse soddisfatta del successo dovuto ai miei sforzi.
Voi sapete, signore, che il giovedì si trasporta il Santissimo dal suo tabernacolo ad un sepolcro particolare dove esso rimane fino al venerdì mattina. Durante quest’intervallo di tempo si susseguono le adorazioni delle monache che si recano al sepolcro l’una dopo l’altra, oppure a due a due. Su una tabella viene indicata a ciascuna la propria ora di adorazione. Come fui felice di leggervi: Suor Santa Susanna e suor Sant’Orsola, dalle 2 alle 3 del mattino. Mi recai dunque al sepolcro all’ora stabilita; la mia compagna vi si trovava di già. Ci mettemmo l’una accanto all’altra sui gradini dell’altare; ci prosternammo insieme, adorammo Dio per una mezz’ora. A questo punto, la mia giovane amica mi tese la mano e strinse la mia dicendo: “Forse non avremo mai l’occasione di stare insieme tanto a lungo e tanto liberamente; Dio sa in quali costrizioni viviamo e ci perdonerà se gli prendiamo un po’ del tempo che dovremmo dedicare a Lui. Non ho letto il vostro memoriale, ma non è difficile immaginare ciò che contiene. Presto avrò la risposta, ma qualora vi autorizzi a procedere allo scioglimento dei vostri voti, non pensate che dovrete necessariamente conferire con uomini di legge?”
“È vero.”
“E che avrete bisogno di libertà?”
“È vero.”
“E che se intendete far bene, approfitterete della condizione attuale per procurarvela?”
“Ci ho pensato.”
“Allora lo farete?”
“Vedrò.”
“Ancora una cosa: se la vostra iniziativa prende l’avvio, rimarrete qui abbandonata a tutto il furore della comunità. Avete previsto le persecuzioni che vi attendono?”
“Non saranno peggiori di quelle che ho già subito.”
“Non ne sono sicura.”
“Perdonatemi. In primo luogo non oseranno privarmi della mia libertà.”
“E perché?”
“Perché allora sarò sotto la protezione della legge; dovranno far sì che mi vedano; sarò, per così dire, tra il mondo e il chiostro; avrò la possibilità di parlare, quella di fare le mie rimostranze; vi chiamerò tutte a testimoni. Non oseranno farmi dei torti dei quali potrei lamentarmi; staranno attenti a non rendere il caso ancor peggiore. Io non chiederei di meglio che di essere trattata male, ma non lo faranno. State tranquilla che assumeranno un contegno del tutto opposto a quello adottato finora. Mi rivolgeranno esortazioni; mi spiegheranno il torto che farò a me stessa e al convento e potete star certa che passeranno alle minacce soltanto quando avranno visto che dolcezza e seduzione non serviranno a niente, e avranno escluso di far ricorso alla forza.”
“È davvero incredibile che nutriate tanta avversione per uno stato di cui adempite gli obblighi con una tale facilità e un tale scrupolo.”
“Ma io la sento questa avversione; è nata con me, e non mi lascerà. Finirei con l’essere una cattiva monaca; e devo prevenire quel momento.”
“E se per disgrazia non ce la farete?”
“Se non ce la farò, chiederò di cambiare convento, oppure morirò in questo.”
“Si soffre a lungo prima di morire. Ah, amica mia, il vostro passo mi fa fremere: tremo nel timore che i vostri voti non siano sciolti, ma tremo anche al pensiero che lo siano. In tal caso, che ne sarà di voi? Che farete nel mondo? Siete bella, ricca di spirito e di qualità, ma dicono che tutto questo non serve a niente con la virtù. Ed io so che voi sarete sempre virtuosa.”
“Voi rendete giustizia a me, ma non alla virtù. Io faccio assegnamento soltanto su di essa: più è rara fra gli uomini, tanto più deve essere tenuta in considerazione.”
“La si loda, ma non si fa niente per essa.”
“Ma è la virtù che mi incoraggia e mi sostiene nel mio progetto. Potranno farmi qualunque obiezione, ma dovranno rispettare i miei costumi. Almeno non si dirà, come si dice di quasi tutte le altre, che io sia stata indotta ad abbandonare il mio stato dietro la spinta di una passione sfrenata. Non vedo nessuno, non conosco nessuno. Chiedo di essere libera, perché il sacrificio della mia libertà non è stato volontario. Avete letto il mio memoriale?”
“No, ho aperto il pacchetto che mi avete dato perché era senza indirizzo e ho pensato che potesse essere per me, ma sin dalle prime righe ho capito di che si trattava e non sono andata avanti. Che felice ispirazione aveste nel darmelo! Un minuto dopo, l’avrebbero trovato su di voi... Ma ormai il nostro turno sta per finire: inginocchiamoci, affinché le monache che prenderanno il nostro posto, ci trovino nella posizione dovuta. Chiedete a Dio che vi illumini e vi guidi; unirò ai vostri sospiri i miei sospiri e la mia preghiera.”
La mia anima era un po’ sollevata. La mia compagna pregava eretta; io mi prosternai con la fronte appoggiata sull’ultimo gradino dell’altare e le braccia tese sui gradini superiori. Non credo di essermi mai rivolta a Dio con maggior consolazione e maggior fervore. Il cuore mi palpitava con violenza; in un attimo dimenticai tutto quello che mi circondava. Non so per quanto tempo rimasi in quella posizione, né per quanto ancora vi sarei rimasta, ma dovette essere uno spettacolo davvero commovente per la mia compagna e le due suore che sopraggiunsero. Quando mi rialzai, credetti di essere sola. Mi sbagliavo: erano tutte e tre in piedi dietro le mie spalle, e si scioglievano in lacrime. Non avevano osato interrompermi; aspettavano che uscissi spontaneamente dallo stato di trasporto e di rapimento in cui mi vedevano. Quando mi voltai dalla loro parte, il mio volto doveva esprimere qualcosa che incuteva rispetto, a giudicare dall’effetto che produsse su di loro e da quello che poi mi dissero, e cioè che in quel momento assomigliavo alla nostra superiora di prima quando ci consolava, e che il vedermi aveva provocato in loro lo stesso trasalimento. Se avessi avuto una qualche inclinazione per l’ipocrisia o il fanatismo, e se avessi voluto impormi nel convento, sono certa che vi sarei riuscita. La mia anima si accende facilmente, si esalta, si commuove; quella stessa buona superiora mi ha detto cento volte abbracciandomi che nessuno avrebbe amato Dio come me, che io avevo un cuore di carne, mentre le altre lo avevano di pietra. Non vi è dubbio che condividevo la sua estasi con estrema facilità; e che durante le sue preghiere ad alta voce, mi accadeva a volte di rubarle la parola, di seguire il filo delle sue idee e, come per ispirazione, di ritrovarmi a dire ciò che lei stessa avrebbe detto. Le altre l’ascoltavano in silenzio o la seguivano; io invece la interrompevo, o la anticipavo, o parlavo con lei. Molto a lungo durava in me l’impressione che avevo ricevuta; evidentemente dovevo restituirgliene una parte, giacché se nelle altre si vedeva che avevano conversato con lei, in lei si vedeva che aveva parlato con me. Ma che vuol dire quando non c’è vocazione?...
Finito il nostro turno, cedemmo il posto alle monache che venivano dopo di noi. Prima di separarci, la mia giovane compagna ed io ci abbracciammo con grande tenerezza.
La scena del sepolcro fece rumore in convento; si aggiunga il successo ottenuto con le “tenebre” del venerdì santo: cantai, suonai, fui applaudita. Oh, teste folli delle monache! Non ebbi quasi niente da fare per riconciliarmi con tutta la comunità; furono loro a venirmi incontro, con la superiora in testa. Alcune persone del gran mondo cercarono di fare la mia conoscenza. Ciò collimava troppo bene con il mio progetto perché potessi rifiutarmi. Conobbi così il Primo Presidente, la signora di Soubise, e una quantità di gente dabbene, frati, preti, militari, magistrati, donne pie, donne di mondo e fra gli altri quella specie di giovani vanesi che voi chiamate tacchi rossi e che io mi affrettai a congedare. Non coltivai altre conoscenze se non quelle che non potevano venirmi rimproverate; il resto, lo abbandonai a quelle fra le nostre consorelle che non erano di gusti tanto difficili.
Dimenticavo di dirvi che il primo segno di bontà che mi testimoniarono, fu quello di riassegnarmi la mia cella. Ebbi il coraggio di richiedere il ritrattino della nostra superiora di prima, e loro non ebbero il coraggio di rifiutarmelo. Ha ripreso il suo posto sul mio cuore e vi resterà finché avrò vita. Tutte le mattine il mio primo impulso è quello di elevare l’anima a Dio, il secondo è quello di baciare quel ritratto; quando voglio pregare e sento la mia anima indifferente, me lo tolgo dal collo, me lo metto davanti, lo guardo e ne ricevo ispirazione. È davvero peccato che non abbiamo conosciuto i santi personaggi le cui immagini sono esposte alla nostra venerazione. Farebbero una ben altra impressione su di noi; non ci lascerebbero così freddi ai loro piedi o in loro presenza.
Ebbi la risposta al mio memoriale. Veniva da un certo signor Manouri e non era né favorevole, né sfavorevole. Prima di pronunciarsi sul caso, mi chiedeva un gran numero di delucidazioni che non avrei potuto dargli se non di persona. Svelai perciò la mia identità e invitai il signor Manouri a venire a Longchamp. Quel genere di signori si sposta difficilmente. Tuttavia venne. Ci intrattenemmo molto a lungo: prendemmo accordi circa una corrispondenza con la quale mi avrebbe fatto pervenire con sicurezza le sue domande e io gli avrei mandato le mie risposte. Per parte mia dedicai tutto il tempo che egli consacrava al mio caso, a ben disporre gli animi, a interessare gente alla mia sorte e a procurarmi delle protezioni. Mi feci conoscere; raccontai il mio comportamento nel primo convento, le mie pene tra le mura domestiche, la mia protesta a Santa Maria, il mio soggiorno a Longchamp, la vestizione, la professione dei voti, la crudeltà con la quale ero stata trattata da quando li avevo pronunciati. Mi compiansero, mi offrirono aiuto; presi atto della buona volontà che mi veniva testimoniata per il tempo in cui avrei potuto averne bisogno senza fornire ulteriori spiegazioni. Nel convento non era ancora trapelato niente. Avevo già ottenuto da Roma il permesso di fare ricorso contro i miei voti, ben presto l’azione sarebbe stata intentata e in convento nessuno sospettava niente. Vi lascio quindi immaginare quale fu la sorpresa della mia superiora quando le fu notificata, a nome di suor Maria Susanna Simonin, una protesta contro i suoi voti, con la richiesta di lasciare l’abito monastico e di uscire dal chiostro per disporre di se stessa come meglio avesse creduto.
Avevo ben previsto che avrei trovato innumerevoli opposizioni: quella delle leggi, quelle del convento, e quella dei miei cognati e delle mie sorelle allarmati. Avevano ereditato tutti i beni di famiglia e temevano che una volta libera mi sarei rivalsa su di loro. Scrissi alle mie sorelle, feci appello alla loro coscienza, ricordando come i voti mi fossero stati imposti; offrii loro di rinunciare con atto autenticato a tutte le mie pretese sull’eredità di mio padre e di mia madre. Non lasciai niente di intentato per convincerle che non si trattava di un passo dettato dall’interesse o dalla passione. Non mi feci illusioni circa i loro sentimenti; l’atto da me proposto, redatto mentre ero ancora vincolata dai voti, non sarebbe stato valido, ed esse non avevano alcuna certezza che lo avrei ratificato quando fossi stata libera. E poi, che convenienza avevano ad accettare le mie proposte? Potevano lasciare una sorella senza asilo e senza fortuna? Avrebbero potuto godere del suo patrimonio? Che cosa avrebbe detto la gente? Se venisse a chiederci un pezzo di pane, come potremmo rifiutarglielo? E se le fosse saltato in mente di sposarsi, chissà che genere di uomo avrebbe sposato? E se avesse avuto dei figli?... Dobbiamo opporci con tutte le nostre forze a questo pericoloso tentativo. Ecco ciò che dissero e ciò che fecero.
Appena la superiora ebbe ricevuto l’atto giuridico della mia domanda, accorse nella mia cella:
“Ma come, suor Susanna,” mi disse, “volete lasciarci?”
“Sì, signora.”
“E farete ricorso contro i vostri voti?”
“Sì, signora.”
“Non li avete forse pronunciati liberamente?”
“No, signora.”
“E chi vi ha costretta?”
“Tutto.”
“Il vostro signor padre?”
“Mio padre, sì.”
“La vostra signora madre?”
“Proprio lei.”
“E perché non protestare ai piedi dell’altare?”
“Ero così poco in me, che non ricordo nemmeno di averci assistito alla cerimonia.”
“Come potete parlare così?”
“Dico la verità.”
“Come! Non avete sentito il sacerdote quando vi chiedeva: “Suor Santa Susanna Simonin, promettete a Dio obbedienza, castità e povertà?””
“Non lo ricordo.”
“E voi credete che gli uomini vi crederanno?”
“Mi credano o non mi credano, non per questo i fatti saranno meno veri.”
“Figliola mia, se venisse dato ascolto a pretesti simili, immaginate quali abusi ne deriverebbero! Avete fatto un passo sconsiderato; vi siete lasciata trascinare da un desiderio di vendetta; provate rancore per i castighi che mi avete costretta ad infliggervi; avete creduto che sarebbero stati sufficienti per sciogliere i vostri voti. Vi siete sbagliata: non è possibile, né davanti a Dio, né davanti agli uomini. Pensate che lo spergiuro è la peggiore delle colpe. Pensate che voi l’avete già commessa nel vostro cuore, e ora state per consumarla nei fatti.”
“Non sarò spergiura. Non ho giurato niente.”
“Se vi è stato fatto qualche torto, non è già stato riparato?”
“Non sono stati quei torti a farmi decidere.”
“Che cosa è stato allora?”
“La mancanza di vocazione, la mancanza di libertà nei miei voti.”
“Se non eravate chiamata, se eravate costretta, perché non lo diceste quando era tempo?”
“E a che cosa mi sarebbe servito?”
“Perché non dimostraste la stessa fermezza che avevate dimostrato a Santa Maria?”
“La fermezza dipende forse da noi? Fui ferma la prima volta; la seconda ero come inebetita.”
“Perché non avete consultato un uomo di legge? Perché non avete protestato? Avete avuto ventiquattro ore di tempo per constatare il vostro ripensamento.”
“Che cosa ne sapevo, io, di queste formalità? E anche se le avessi sapute, ero forse in grado di fare ricorso? E se anche fossi stata in grado di fare ricorso, l’avrei forse potuto? Ma come, signora! Voi stessa non vi siete resa conto della mia alienazione? Se vi chiamo a testimone, giurerete che ero in possesso di tutte le mie facoltà mentali?”
“Lo giurerò.”
“Ebbene, signora, sarete voi, e non io, la spergiura.”
“Figliola mia, farete uno scandalo inutile. Tornate in voi, ve ne scongiuro per il vostro interesse, per quello del convento; queste cose non accadono senza portarsi dietro uno strascico di discussioni scandalose.”
“Non sarà colpa mia.”
“La gente è cattiva: farà le peggiori supposizioni sul vostro spirito, sul vostro cuore, sui vostri costumi; crederanno...”
“Credano pure ciò che vogliono.”
“Suvvia, parlatemi a cuore aperto; se avete qualche segreta ragione d’essere scontenta, qualunque essa sia, c’è un rimedio a tutto.”
“Ero, sono, e sarò per tutta la vita, scontenta del mio stato.”
“E se fosse lo spirito maligno che è sempre attorno a noi e vuole la nostra perdita, che approfitta della troppo grande libertà che vi è stata concessa da qualche tempo, per ispirarvi tendenze funeste?”
“No, signora; voi sapete quanto mi costi un giuramento: ebbene, chiamo Dio a testimone che il mio cuore è innocente e che non ha mai nutrito nessun sentimento di cui dovessi vergognarmi.”
“È inconcepibile.”
“Eppure, signora, non vi è nulla di più concepibile. Ciascuno ha il proprio carattere, ed io ho il mio. A voi piace la vita monastica, io la odio; voi avete ricevuto da Dio la grazia del vostro stato, io non ne ho alcuna. Nel mondo, voi vi sareste perduta, e qui vi assicurate la salvezza eterna; io invece mi perderei qui, e spero di salvarmi nel mondo. Sono e sarei una cattiva monaca.”
“E perché? Nessuno adempie i propri doveri meglio di voi.”
“Ma a fatica, e controvoglia.”
“Il vostro merito è ancor più grande.”
“Nessuno può sapere meglio di me quello che merito, e sono costretta a riconoscere che sottomettendomi a tutto, io non merito niente. Sono stanca di essere ipocrita; facendo ciò che salva le altre, mi detesto e mi danno. In poche parole, signora, non conosco vere suore se non quelle che sono trattenute qui dentro dal loro amore per la vita ritirata e che vi resterebbero anche se non fossero circondate da grate e mura per trattenerle. Sono molto lontana da loro! Il mio corpo è qui, ma non il mio cuore; esso è fuori, e se dovessi scegliere tra la morte e la clausura perpetua, non esiterei a morire. Ecco quello che penso.”
“Come! voi lascereste senza rimorsi questo velo, questi abiti che vi hanno consacrata a Cristo?”
“Sì, signora, perché li ho presi senza riflessione e senza libertà...”
In verità le risposi con molta moderazione se penso a quello che mi suggeriva il cuore. Esso mi diceva: “Oh, quando giungerà il momento in cui potrò stracciarli e buttarli lontano da me!”
Ciò nonostante, la mia risposta la scosse. La superiora impallidì, tentò ancora di parlare, ma le sue labbra tremavano; non sapeva bene nemmeno lei che cosa dirmi. Io misuravo a gran passi la cella, ed ella allora esclamò:
“Oh, mio Dio! che diranno le nostre sorelle? Oh, Gesù! volgete su di lei uno sguardo pietoso! Suor Santa Susanna?”
“Signora?”
“Ma allora, è un partito preso? Voi volete disonorarci, farci diventare la favola pubblica, perdervi!”
“Voglio uscire di qui.”
“Ma se è solamente perché questo convento non vi piace...”
“È questo convento, è il mio stato, è la religione; non voglio essere rinchiusa ne qui, né altrove.”
“Figliola mia, voi siete posseduta dal demonio; è lui che vi spinge alla ribellione, che vi fa parlare, che vi trascina. Non c’è niente di più vero: guardate in che stato siete!”
Mi detti un’occhiata e vidi che in effetti il mio abito era scomposto, il soggolo di traverso e che il velo mi era caduto sulle spalle. Mi infastidivano le parole di quella perfida superiora con il suo tono raddolcito e falso, e le dissi indispettita:
“No, signora, no, non voglio più saperne di questo abito, non voglio più saperne...”
Intanto cercavo di riaggiustarmi il velo; le mani mi tremavano, e più mi sforzavo di metterlo a posto, meno ci riuscivo; spazientita, lo afferrai con violenza, lo strappai, lo buttai per terra, e rimasi di fronte alla mia superiora con la fronte cinta da una fascia e tutta scapigliata. Nel frattempo lei, incerta se restare o uscire, andava e veniva dicendo:
“Oh, Gesù! questa qui è posseduta dal demonio, è davvero posseduta dal demonio...”
E l’ipocrita si faceva il segno della croce con il rosario. Non mi ci volle molto a tornare in me; sentii l’indecenza della mia condizione e l’imprudenza dei miei discorsi; mi ricomposi come meglio potei; raccattai il velo e me lo rimisi, poi, volgendomi verso di lei, le dissi:
“Signora, non sono né pazza, né posseduta dal demonio; mi vergogno della mia violenza e ve ne chiedo perdono. Ma giudicate voi stessa quanto poco mi si addica la vita del chiostro, e come sia giusto che io cerchi, se posso, di venirne fuori.”
E lei, senza ascoltarmi, ripeteva:
“Che dirà la gente? Che diranno le nostre sorelle?”
“Signora,” le dissi, “volete evitare uno scandalo? Ci sarà pure un mezzo. La dote non mi interessa; io non chiedo che la libertà. Non chiedo che voi mi apriate le porte, ma che facciate in modo, oggi, domani, nei giorni che verranno, che siano mal sorvegliate. Voi vi dovrete soltanto accorgere della mia evasione il più tardi possibile...”
“Sciagurata, che cosa osate propormi?”
“Un consiglio, che una buona e savia superiora dovrebbe seguire con tutte quelle monache per le quali il convento è una prigione. E il convento per me è una prigione mille volte più orrenda di quella in cui vengono rinchiusi i malfattori; non posso che uscirne o morirvi... Signora,” seguitai assumendo un tono grave e uno sguardo fermo, “mi ascolti: se le leggi alle quali ho fatto appello deludessero le mie aspettative e se, spinta dagli impulsi di una disperazione che conosco fin troppo bene... c’è un pozzo... ci sono delle finestre in convento... ovunque vi sono dei muri... l’abito si può fare a pezzi... e si può anche far ricorso alle mani...”
“Basta, sciagurata! mi fate fremere d’orrore... Come! Voi potreste...”
“Potrei, in mancanza di tutto quello che mette bruscamente fine ai mali della vita, potrei rifiutare il cibo; si è padroni di mangiare e di bere, si è padroni anche di non farlo... Se mai accadesse, dopo tutto quello che vi ho detto, che io trovassi il coraggio... - e voi sapete bene che il coraggio non mi manca, e che talvolta ce ne vuole di più per vivere che per morire -, immaginatevi al cospetto di Dio e del suo giudizio, e ditemi chi, tra la superiora e la monaca, gli sembrerebbe più colpevole... Io, signora, non chiedo e non chiederò mai niente al convento; risparmiatemi una colpa, risparmiatevi dei lunghi rimorsi: mettiamoci d’accordo...
“Ma vi rendete conto, suor Susanna? Io dovrei mancare al primo dei miei doveri, dovrei collaborare a una colpa, rendermi complice di un sacrilegio!”
“Il vero sacrilegio, signora, sono io che lo commetto tutti i giorni profanando con il disprezzo gli abiti sacri che indosso. Toglietemeli, non ne sono degna; fate cercare in paese gli stracci della contadina più povera, e fate in modo che la porta della clausura mi venga socchiusa...”
“E dove andrete per stare meglio?”
“Non so dove andrò, ma si sta male soltanto laddove Dio non ci vuole, e Dio, qui, non mi vuole.”
“Non possedete niente.”
“È vero, ma l’indigenza non è la cosa che mi fa più paura.”
“Abbiate almeno paura dei disordini ai quali essa trascina.”
“Il passato, signora, si fa garante dell’avvenire; se avessi voluto dare ascolto al peccato, ora sarei libera. Ma se mi sarà dato di uscire da questo convento, ciò avverrà con il vostro consenso, o per l’autorità delle leggi. Avete la scelta.”
Era stata una lunga discussione. Nel ricordarla, arrossisco delle cose indiscrete e ridicole che avevo fatto e detto, ma ormai era troppo tardi. La superiora stava ancora esclamando “che dirà la gente! che diranno le nostre sorelle!”, allorché la campana che ci chiamava all’uffizio ci avvertì che era giunto il momento di separarci.
Nel lasciarmi, la superiora mi disse:
“Suor Santa Susanna, adesso state per andare in chiesa: chiedete a Dio che vi tocchi il cuore e che vi renda la consapevolezza del vostro stato. Interrogate la vostra coscienza e ascoltate ciò che essa vi dirà: è impossibile che non vi faccia dei rimproveri. Vi dispenso dal canto.”
Scendemmo a poca distanza l’una dall’altra. Quando l’uffizio ebbe termine, mentre tutte le suore stavano per separarsi, la superiora dette un colpetto sul suo breviario che le fece fermare.
“Sorelle,” disse, “vi invito a prosternarvi ai piedi dell’altare e ad implorare la misericordia di Dio su una monaca che egli ha abbandonato, che ha perduto l’amore e lo spirito della religione, e che sta per compiere un’azione sacrilega agli occhi di Dio e scandalosa agli occhi degli uomini.”
Non saprei descrivervi la sorpresa generale; in un batter d’occhio ciascuna di loro, senza muoversi, scrutò il viso delle sue compagne cercando di individuare la colpevole dal suo imbarazzo. Si prosternarono tutte quante e pregarono in silenzio. Dopo un lasso di tempo abbastanza lungo, la priora intonò a bassa voce il Veni Creator e le monache ripresero a bassa voce il Veni Creator. Poi, dopo un altro momento di silenzio, la superiora batté sul leggio e tutte quante uscimmo.
Vi lascio immaginare il mormorio che si levò dalla piccola comunità “Chi è? chi non è? che cosa ha fatto? Che cosa vuol fare?...” Gli interrogativi non durarono a lungo. La mia domanda cominciava a fare scalpore in società; ricevevo continuamente visite: chi veniva a rimproverarmi, chi a darmi consigli, chi mi approvava, chi mi biasimava. Avevo un solo modo per giustificarmi agli occhi di tutti, ed era di metterli al corrente della condotta dei miei genitori. Non vi sarà difficile immaginare con quale riserbo lo dovessi fare. Solo a poche persone, che mi restarono sinceramente affezionate, e al signor Manouri, che si era incaricato di patrocinare la mia causa, potevo confidarmi a cuore aperto.
Quando ero spaventata dai tormenti che mi venivano minacciati, quella segreta, dove già una volta ero stata trascinata, tornava a presentarsi alla mia immaginazione in tutto il suo orrore: conoscevo bene il furore delle monache. Comunicai i miei timori al signor Manouri ed egli mi disse:
“È impossibile evitarvi ogni genere di afflizioni: ne dovrete sopportare, e sicuramente vi siete preparata. Dovete armarvi di pazienza e farvi coraggio con la speranza che finiranno. Quanto alla segreta, vi prometto che non ci tornerete mai più; ci penserò io...”
Pochi giorni dopo, infatti, presentò alla superiora l’ordine di farmi comparire ogni qualvolta fosse stato richiesto. Il giorno seguente, dopo l’uffizio, fui ancora raccomandata alle preghiere pubbliche della comunità: le monache pregarono in silenzio, e a voce bassa fu intonato lo stesso inno del giorno prima. Stessa cerimonia il terzo giorno con la differenza che mi fu ordinato di rimanere in piedi in mezzo al coro, e che furono recitate le preghiere per gli agonizzanti, le litanie dei santi, cui rispondeva ogni volta la formula ora pro ea. Il quarto giorno fu la volta di una messa in scena che caratterizzava alla perfezione l’indole bizzarra della superiora. Alla fine dell’uffizio, mi fecero sdraiare in una bara in mezzo al coro: misero dei candelieri e un’acquasantiera ai lati della bara; mi coprirono con un sudario e recitarono l’uffizio dei morti. Dopo di che ogni monaca, nell’andarsene, mi asperse di acqua benedetta, dicendo “Requiescant in pace”. Bisogna capire la lingua dei conventi per cogliere la minaccia racchiusa in queste ultime parole. Due monache sollevarono il sudario e mi lasciarono lì, con la pelle tutta bagnata dall’acqua con la quale mi avevano malignamente innaffiata. Gli abiti mi si asciugarono addosso; non avevo di che cambiarmi.
Questa mortificazione fu seguita da un’altra. La comunità si riunì; fui guardata come una reproba; il passo che avevo compiuto fu tacciato di apostasia; a tutte le suore fu proibito di parlarmi, di soccorrermi, di avvicinarmi, e persino di toccare le cose che fossero servite a me. Questi ordini vennero rigorosamente eseguiti. I nostri corridoi sono stretti e in alcuni punti due persone si incrociano a malapena: se mentre camminavo per i corridoi una monaca fosse venuta nella mia direzione, tornava sui suoi passi oppure si schiacciava contro la parete, tenendosi il velo e l’abito per paura che mi sfiorassero. Se dovevano ricevere qualcosa da me, io la posavo per terra e loro la prendevano con una pezzuola; se avevano qualcosa da darmi, me la buttavano. Se per disgrazia mi avevano toccato, si credevano insozzate e andavano a confessarsi e a farsi assolvere dalla superiora. È stato detto che l’adulazione è vile e bassa, ma è anche assai crudele e ingegnosa allorché si tratta di piacere grazie alle mortificazioni che inventa.
Quante volte mi sono ricordata le parole della mia celeste superiora de Moni:
“Tra tutte queste creature che vedete intorno a me, così docili, così innocenti, così dolci, sappiate, figliola mia, che non ve n’è quasi una sola, no, quasi una sola, di cui non possa fare una bestia feroce; strana metamorfosi che è tanto più facile subire quanto più si è entrate giovani in una cella e perciò meno si conosce la vita di società. Questo discorso vi stupisce. Dio vi guardi dallo sperimentarne la verità, suor Susanna, la buona monaca è quella che porta nel chiostro qualche grave colpa da espiare.”
Mi fu tolto ogni incarico. In chiesa, gli stalli a sinistra e a destra del mio venivano lasciati vuoti. Nel refettorio, ero sola a una tavola e nessuno mi serviva; ero costretta ad andare in cucina per chiedere la mia porzione. La prima volta la suora cuciniera mi gridò:
“Non entrate, state lontana...”
Le obbedii.
“Che cosa volete?”
“Da mangiare.”
“Da mangiare? Non siete degna di vivere.”
Qualche volta me ne andavo e passavo la giornata senza mangiare niente. Qualche volta insistevo e allora mi mettevano sulla soglia certe vivande che ci si sarebbe vergognati a presentare a delle bestie; io le raccattavo piangendo e me ne andavo. Se mi capitava di arrivare per ultima alla porta del coro, lo trovavo chiuso. Allora mi inginocchiavo e aspettavo la fine dell’uffizio. Se trovavo chiusa la porta del giardino, me ne tornavo nella mia cella. Intanto, mentre le mie forze andavano declinando per il cibo scarso, la cattiva qualità di quello che prendevo e ancor più per il dolore che provavo nel dover sopportare così innumerevoli e reiterate manifestazioni di inumanità, sentii che se avessi persistito nella sofferenza senza protestare, non avrei mai visto la fine del mio processo. Mi decisi perciò a parlare alla superiora; ero mezza morta di paura e ciò nonostante andai a bussare pian piano alla sua porta. Aprì, e nel vedermi arretrò di diversi passi, gridandomi:
“Allontanatevi, apostata!”
Indietreggiai.
“Ancora...”
Indietreggiai ancora.
“Che cosa volete?”
“Giacché né Dio, né gli uomini mi hanno condannata a morire, voglio, signora, che ordiniate di lasciarmi vivere.”
“Vivere,” mi disse, ripetendomi le parole della suora cuciniera, “ne siete forse degna?”
“Dio soltanto può saperlo, ma vi avverto che se mi rifiutano ancora il cibo, sarò costretta a fare le mie rimostranze a coloro che mi hanno presa sotto la loro protezione. Sono qui soltanto di passaggio, in attesa che vengano decisi la mia sorte e il mio stato.”
“Andatevene,” mi disse, “non sporcatemi con i vostri sguardi; provvederò.”
Me ne andai, ed ella sbatté con violenza la porta. È probabile che abbia dato degli ordini, ma non per questo fui trattata meglio. Le monache si facevano un vanto di disobbedire; mi gettavano le vivande più grossolane e per di più le insozzavano di cenere e di ogni sorta di immondizie.
Questa fu la mia esistenza finché durò il processo. Il parlatorio non mi fu del tutto vietato; non potevano togliermi la libertà di conferire con i miei giudici o con il mio avvocato. Questi fu addirittura costretto alle minacce per poter incontrarmi. Una monaca mi accompagnava e protestava se parlavo a voce bassa; si impazientiva se restavo troppo a lungo; mi interrompeva, mi smentiva, mi contraddiceva, ripeteva i miei discorsi alla superiora, li travisava istillando veleno, attribuendomi propositi che non avevo mai espresso. Che altro? Giunsero al punto di derubarmi, di spogliarmi, togliermi sedie, coperte e materassi. Non mi davano più biancheria; gli abiti mi cadevano a brandelli, non avevo quasi più calze, né scarpe. A stento riuscivo ad ottenere dell’acqua; più di una volta sono stata costretta ad attingerla io stessa dal pozzo, da quel pozzo di cui vi ho parlato; mi ruppero i vasi e così fui ridotta a bere l’acqua che avevo tirato su senza poterla portar via. Se passavo sotto le finestre, ero costretta a scappar via per non correre il rischio di buscarmi addosso le immondizie buttate dalle celle. Alcune monache mi hanno sputato sul viso. Ero diventata di una sporcizia ripugnante. Temendo che me ne lamentassi con i nostri direttori spirituali mi proibirono di confessarmi.
Un giorno di festa solenne - era, credo, il giorno dell’Ascensione - mi bloccarono la serratura e non potei andare a messa. Forse sarei mancata a tutte le altre funzioni senza la visita del signor Manouri al quale in un primo momento fu detto che nessuno sapeva che cosa ne fosse stato di me, che non mi si vedeva più, e che non osservavo più nessuna pratica religiosa. Dopo innumerevoli sforzi, riuscii tuttavia a far saltare la serratura e mi recai alla porta del coro che trovai chiusa come accadeva ogni volta che non arrivavo tra le prime. Ero sdraiata per terra, con la testa e la schiena appoggiate contro un muro e le braccia incrociate sul petto, quando terminò la funzione e le suore si apprestarono ad uscire. La prima si fermò di botto mentre le altre arrivavano dietro di lei. La superiora immaginò subito di che cosa si trattasse e disse:
“Camminatele sopra: è soltanto un cadavere.”
Alcune obbedirono e mi calpestarono; altre furono meno disumane, ma nessuna osò tendermi la mano per rialzarmi. Mentre ne ero assente, mi tolsero dalla cella l’inginocchiatoio, il ritratto della nostra fondatrice, le altre immagini pie, il crocifisso; non mi rimase che quello appeso al rosario e che non mi fu lasciato a lungo. Vivevo dunque tra quattro muri nudi, in una camera senza porta, senza sedie, in piedi o su un pagliericcio, senza nessun vaso, nemmeno quelli più necessari, costretta a uscire di notte per soddisfare i bisogni naturali, accusata la mattina di disturbare il riposo del convento, di girovagare, di stare impazzendo. Poiché la mia cella non si poteva più chiudere, entrarono di notte facendo un gran baccano. Gridando smuovevano il letto, rompevano le finestre, mi terrorizzavano in mille modi. Il rumore saliva al piano di sopra, scendeva al piano di sotto e quelle che non prendevano parte alla gazzarra dicevano che in camera mia accadevano cose strane; che avevano sentito voci lugubri, grida, sbattere di catene e che io parlavo continuamente con fantasmi e spiriti maligni; che dovevo aver fatto un patto con il demonio e che quanto prima si sarebbe dovuto evitare il mio corridoio.
In una comunità vi sono anime semplici. Sono addirittura la maggioranza. Queste credevano a ciò che si diceva loro, non osavano passare davanti alla mia porta e nella loro immaginazione distorta mi vedevano con una faccia ripugnante, si facevano il segno della croce quando mi incontravano e fuggivano gridando:
“Vattene, Satana! Mio Dio, aiutatemi!...”
Una volta accadde che una delle più giovani fosse in fondo al corridoio, che io andassi verso di lei, e che non ci fosse più modo di evitarmi. Fu colta da un terrore indicibile; dapprima volse il viso contro il muro, mormorando con voce tremante:
“Dio mio! Dio mio! Gesù! Maria!”
Intanto io seguitavo ad andare avanti: sentendomi vicina, si copre il viso con le mani per paura di vedermi, si butta tutta dalla mia parte, si precipita con violenza tra le mie braccia, ed esclama:
“Aiuto! Aiuto! Misericordia! Sono perduta! Suor Santa Susanna non mi fate del male; suor Santa Susanna, abbiate pietà di me...”
Così dicendo, eccola che cade mezza morta per terra. Alle sue grida accorrono, la portano via.
Non vi so dire come fu travisato quest’episodio. Se ne fece una storia delle più criminose: si disse che il demone dell’impurità si era impadronito di me. Mi furono attribuiti intenti, azioni che non oso nominare, oltre che desideri anormali ai quali fu attribuito l’evidente disordine in cui era stata trovata la giovane monaca.
A onor del vero, io non sono un uomo e ignoro che cosa si possa immaginare di una donna e di un’altra donna insieme, e ancor meno di una donna sola. Tuttavia, dato che il mio letto era senza cortine e per di più si poteva entrare in camera mia a qualunque ora, che posso dirvi, signore? Con tutto il loro ritegno esteriore, con la modestia dei loro sguardi, la castità della loro espressione, bisogna proprio che quelle donne abbiano il cuore davvero corrotto. Se non altro esse sanno che si possono commettere da sole azioni disoneste, mentre io non lo so; perciò non ho mai capito bene di che cosa mi accusassero, ed esse si esprimevano in termini così oscuri che non ho mai saputo che cosa ci fosse da rispondere.
Se dovessi riferire nei particolari quelle persecuzioni, non la farei più finita. Ah, signore! se avete dei figli, la mia sorte vi insegni che cosa preparereste loro se lasciaste che entrassero in religione senza manifestare i segni della vocazione più salda e più sicura. Come si è ingiusti nel mondo! Si permette a un figlio di disporre della propria libertà in un’età in cui non gli è consentito disporre di uno scudo. Uccidete vostra figlia piuttosto che imprigionarla in un chiostro contro la sua volontà. Quante volte ho desiderato che mia madre mi avesse soffocata alla nascita. Sarebbe stata meno crudele. Ci credereste che mi tolsero il breviario e che mi proibirono di pregare Dio? Come ben potete immaginare, non obbedii: era, ahimé, la mia unica consolazione. Levavo le mani al cielo, gridavo, e osavo sperare che le mie grida fossero udite dal solo essere che vedeva tutta la mia miseria. Ascoltavano alla mia porta, e un giorno che mi rivolgevo a lui con il cuore pieno d’ambascia e invocavo il suo aiuto, mi dissero:
“Chiamate Dio invano, non c’è più Dio per voi. Morite disperata, e siate dannata..”
Altre aggiunsero:
“Così sia per l’apostata! Così sia per lei!”
Ma ecco un episodio che vi sembrerà ben più strano di tutti gli altri. Non so se si tratti di cattiveria o illusione; comunque sia, benché non facessi niente che rivelasse una mente malata, e a maggior ragione uno spirito ossessionato dalle forze infernali, discussero fra loro se non fosse il caso di farmi esorcizzare, e all’unanimità fu concluso che avevo rinunciato al battesimo e alla cresima, che i demoni mi possedevano e mi tenevano lontana dagli uffizi divini. Un’altra soggiunse che durante certe preghiere io digrignavo i denti, che in chiesa ero percorsa da un fremito e che all’elevazione del Santissimo mi torcevo le braccia. Un’altra ancora asserì ch’io calpestavo il crocifisso, che non portavo più il rosario (che mi avevano rubato), e proferivo bestemmie che non oso ripetervi. Tutte quante affermarono che in me accadevano cose non naturali e che si doveva avvertire il gran vicario. Così fu fatto.
Il gran vicario era un certo monsignor Hébert, uomo anziano e di grande esperienza, brusco di modi, ma giusto e illuminato. Gli fu descritto nei minimi particolari il disordine del convento. Era sicuramente un grande disordine e se io ne ero la causa, era una causa davvero innocente. Come di certo voi immaginerete, nel rapporto che gli fu consegnato, non vennero tralasciati i miei vagabondaggi notturni, le mie assenze dal coro, lo strepito nella mia cella, ciò che l’una aveva visto, ciò che l’altra aveva sentito, la mia avversione per le cose sante, le bestemmie, gli atti osceni che mi venivano imputati. Dell’avventura della giovane monaca, ne fecero poi quello che vollero. Si trattava di accuse così gravi e così numerose, che con tutto il suo buon senso, monsignor Hébert non poté fare a meno di prestarvi fede almeno in parte e non credere che vi fosse una larga parte di verità. La cosa gli pareva abbastanza importante per occuparsene di persona; fece annunciare la propria visita e infatti giunse scortato da due giovani ecclesiastici addetti alla sua persona e che lo aiutavano nelle sue difficili mansioni.
Qualche giorno prima, di notte, sentii che qualcuno entrava furtivamente nella mia cella. Non dissi niente e attesi che mi venisse rivolta la parola. Una voce bassa e tremante mi chiamava:
“Suor Santa Susanna, dormite?”
“No, non dormo. Chi è?”
“Sono io.”
“Chi voi?”
“La vostra amica che muore di paura e rischia di perdersi per darvi un consiglio forse inutile. Statemi a sentire: domani, o dopo, ci sarà la visita del gran vicario; sarete accusata: preparatevi a difendervi. Addio: fatevi coraggio e il Signore sia con voi.”
Ciò detto, si allontanò leggera come un’ombra.
Come vedete, vi sono dunque anche nei conventi anime compassionevoli che non si lasciano indurire.
Intanto il mio processo seguiva il suo corso suscitando un interesse appassionato. Una folla di persone, di ogni stato, sesso e condizione, che nemmeno conoscevo, s’interessò alla mia sorte e intercedette in mio favore. Voi foste fra questi, e forse la storia dei mio processo vi è più nota che a me, giacché verso la fine non potevo più conferire con il signor Manouri. Gli venne detto che ero malata. Sospettò che lo stessero ingannando ed ebbe paura che mi avessero gettato in una segreta. Si rivolse all’arcivescovado, dove non si degnarono di dargli ascolto. Si era insinuato che fossi pazza, o forse qualcosa di peggio. Si rivolse ai giudici; insisté sull’esecuzione dell’ordine già intimato alla superiora di farmi comparire, viva o morta, quando le fosse stato intimato. I giudici secolari interpellarono i giudici ecclesiastici; questi ultimi previdero le conseguenze che l’incidente avrebbe potuto avere, se non fossero stati presi subito dei provvedimenti e fu questo che, verosimilmente, accelerò la visita del gran vicario. Quei signori infatti, stufi delle eterne beghe di convento, di solito non si affrettano ad immischiarsene: sanno per esperienza che la loro autorità viene sempre elusa e compromessa.
Approfittai del consiglio della mia amica per invocare l’aiuto di Dio, rassicurare la mia anima e preparare la mia difesa. Non chiesi al cielo altro che la fortuna di essere interrogata ed ascoltata senza parzialità; la ottenni, ma ora sentirete a quale prezzo.
Se era nel mio interesse comparire davanti al mio giudice innocente e savia, era altrettanto importante per la mia superiora che mi vedessero cattiva, posseduta dal demonio, colpevole e pazza. Perciò, mentre io raddoppiavo in fervore e in preghiere, le mie consorelle raddoppiarono in malvagità; mi dettero da mangiare quanto bastava per non morire di fame; mi subissarono di mortificazioni; moltiplicarono intorno a me i motivi di terrore; mi privarono di ogni riposo notturno; misero in opera tutto quel che può minare la salute e turbare la mente; usarono nella crudeltà una raffinatezza di cui non avete idea. Giudicate voi stessi da questo episodio. Un giorno che uscivo dalla mia cella per andare in chiesa o da qualche altra parte, vidi delle molle per terra in mezzo al corridoio; mi chinai per raccattarle e metterle in modo che colei che le aveva smarrite potesse ritrovarle facilmente. La luce mi impedì di vedere che erano arroventate; le presi in mano, e questo bastò perché nel lasciarle ricadere mi portassero via tutta la pelle dal palmo della mano nuda. Di notte, nei posti dove dovevo passare, mettevano degli ostacoli per terra o all’altezza della testa; mi sono ferita cento volte. Non so come ho fatto a non uccidermi. Non avevo niente per farmi luce ed ero costretta a procedere tremante con le mani protese. Sotto i piedi mi seminavano bicchieri rotti.
Ero ben decisa a raccontare tutto e riuscii a mantenere più o meno la parola. Trovavo chiusa la porta delle latrine ed ero costretta a scendere diversi piani e a correre in fondo al giardino quando la porta era aperta; quando non lo era... Ah, signore, come sono cattive le donne recluse quando sono sicure di assecondare l’odio della loro superiora e credono di servire Dio gettandovi nella disperazione! Era tempo che arrivasse l’arcidiacono; era tempo che finisse il mio processo.
Ecco il momento più terribile della mia vita. Dovete pensare, signore, che io ignoravo assolutamente sotto quali tinte ero stata dipinta agli occhi di questo ecclesiastico, e che egli arrivava con la curiosità di vedere una fanciulla posseduta dal demonio o che fingeva di esserlo. Credettero che soltanto un forte spavento potesse mostrarmi in quello stato, ed ecco in che modo si comportarono per procurarmelo.
Il giorno della sua visita; di primo mattino, la superiora entrò nella mia cella; la accompagnavano tre monache, di cui una portava un’acquasantiera, un’altra un crocifisso, e la terza delle corde. Con voce forte e minacciosa, la superiora mi disse: “Alzatevi... mettetevi in ginocchio e raccomandate l’anima a Dio.”
“Signora,” le chiesi, “prima di obbedirvi, potrei chiedervi che cosa ne sarà di me, che cosa avete deciso e che cosa devo chiedere a Dio?”
Un sudore freddo mi inondò tutta; tremavo, sentivo che le ginocchia mi si piegavano; guardavo con terrore le tre monache fatali. Erano in piedi l’una accanto all’altra, con il volto cupo, le labbra strette e gli occhi chiusi. Dalla mia bocca erano uscite parole rotte dallo spavento; a giudicare dal silenzio, credetti che non mi avessero sentita; perciò, con voce debole e che si andava spegnendo, dissi:
“Quale grazia devo chiedere a Dio?”
Mi risposero:
“Chiedetegli perdono per i peccati di tutta la vostra vita; parlategli come se foste sul punto di comparire dinanzi a lui.”
Nel sentire queste parole credetti che avessero tenuto consiglio e avessero preso la decisione di sbarazzarsi di me. Avevo sentito dire che a volte era questa la pratica che vigeva nei conventi di certi monaci: giudicavano, condannavano, suppliziavano. Non credevo che fosse mai stata esercitata una giurisdizione così disumana in nessun convento di donne, ma erano tante le cose che non avevo indovinato. Eppure vi accadevano! All’idea della morte vicina, volli gridare, ma dalla mia bocca aperta non usciva alcun suono. Tesi verso la superiora le braccia supplichevoli. Mi sentii venir meno e il mio corpo vacillava all’indietro. Caddi, ma la mia caduta non fu violenta. In quei momenti di angoscia, in cui insensibilmente le forze ci abbandonano, le membra cedono, si afflosciano, per così dire, le una sulle altre e la natura, nell’impossibilità di sostenersi, sembra che cerchi di venir meno mollemente. Persi conoscenza e sentimento; sentivo soltanto ronzare intorno a me voci confuse e lontane. Non so se fossero le monache a parlare o le mie orecchie a ronzare; io, in ogni modo, non sentivo che quel brusio ininterrotto. Ignoro per quanto tempo rimasi in quello stato, ma ne riemersi per una sensazione improvvisa di fresco che mi provocò una leggera convulsione e mi strappò un profondo sospiro. Ero intrisa d’acqua che colava a terra dai miei abiti: era l’acqua di una grande acquasantiera che mi avevano rovesciata addosso. Ero sdraiata sul fianco, stesa in quell’acqua, con la bocca semiaperta e gli occhi spenti e socchiusi. Cercai di aprirli e di guardare, ma mi sembrò di essere avvolta in un’aria spessa attraverso la quale intravedevo soltanto un ondeggiare di vesti cui cercavo inutilmente di aggrapparmi. Facevo forza sul braccio libero. Avrei voluto alzarlo, ma lo sentivo troppo pesante. A poco a poco diminuì quella mia estrema debolezza; mi sollevai, appoggiai la schiena contro il muro. Avevo le mani nell’acqua, la testa reclinata sul petto; dalle labbra mi usciva un lamento inarticolato, spezzato e doloroso. Quelle quattro donne mi guardavano con un’aria improntata a necessità, a inflessibilità, che mi toglieva il coraggio di implorarle. La superiora disse:
“Mettetela in piedi.”
Mi presero sotto le ascelle e mi sollevarono. La superiora soggiunse:
“Dal momento che non vuole raccomandarsi a Dio, peggio per lei, sapete che cosa vi resta da fare; procedete...”
Credetti che le corde che avevano portato fossero destinate a strangolarmi. Le guardai, e i miei occhi si riempirono di lacrime. Chiesi il crocifisso da baciare; me lo rifiutarono. Chiesi le corde da baciare; me le presentarono. Mi chinai, presi lo scapolare della superiora e lo baciai.
Dissi:
“Signore, abbiate pietà di me! Care sorelle, cercate di non farmi soffrire.”
Offrii il collo.
Non potrei dirvi che cosa ne fu di me, né che cosa mi fecero: sono certa che coloro che vengono condotti al supplizio, come io credevo di esserlo, sono morti prima di essere giustiziati. Mi ritrovai sul pagliericcio che mi serviva da letto, con le braccia legate dietro la schiena, seduta, e un gran crocifisso di ferro sulle mie ginocchia...
Capisco, signor marchese, tutto il male che vi faccio; ma voi avete voluto sapere se meritavo veramente la compassione che mi aspettavo da voi.
Fu in quel momento che sentii la superiorità della religione cristiana su tutte le religioni del mondo; quale profonda saggezza in quella che la cieca filosofia chiama la follia della croce. Nello stato in cui mi trovavo, a che cosa mi sarebbe servita l’immagine di un legislatore felice e ricolmo di gloria? Io vedevo l’innocente, con il fianco trafitto, la fronte incoronata di spine, la mani e i piedi forati dai chiodi, mentre spirava tra le sofferenze, e mi dicevo: “Ecco il mio Dio, e io oso lamentarmi!...” Mi aggrappai a quell’idea e sentii che la consolazione mi rinasceva nel cuore; riconobbi la vanità della vita e fui troppo felice di perderla prima di avere avuto il tempo di moltiplicare le mie colpe. Intanto però contavo i miei anni, constatavo di avere appena diciannove anni, e sospiravo. Ero troppo indebolita, troppo abbattuta, perché il mio spirito potesse levarsi al di sopra dei terrori della morte; in piena salute, credo che avrei potuto risolvermi con più coraggio.
Nel frattempo tornarono la superiora e le sue discrete [22] e mi trovarono con più presenza di spirito di quanto non si sarebbero aspettate e di quanto avrebbero voluto. Mi misero in piedi, mi velarono la faccia, poi due di loro mi presero sotto le ascelle, mentre una terza mi spingeva da dietro e la superiora mi ordinava di camminare. Andavo senza sapere dove andassi, ma credendo di andare al supplizio. E intanto mi dicevo:
“Mio Dio, abbiate pietà di me! Mio Dio, non mi abbandonate! Mio Dio, perdonatemi, se vi ho offeso!”
Entrai in chiesa. Il gran vicario aveva celebrato la messa. La comunità vi era tutta radunata. Dimenticavo di dirvi che quando fui sulla porta le tre monache che mi conducevano mi stringevano da vicino, mi spingevano con violenza, sembravano tutte indaffarate intorno a me e mi trascinavano per le braccia, mentre altre mi trattenevano da dietro per dare l’impressione che resistessi e che mi ripugnasse entrare in chiesa, cosa che non era affatto vera. Mi portarono verso i gradini dell’altare; facevo fatica a stare in piedi, e loro mi spingevano in ginocchio come se recalcitrassi e mi trattenevano come se avessi avuto l’intenzione di fuggire. Cantarono il Veni Creator, venne esposto il Santissimo, venne impartita la benedizione. Al momento della benedizione, quando ci si inchina in segno di venerazione, quelle che mi avevano afferrata per le braccia mi curvarono quasi di forza mentre le altre mi premevano le mani sulle spalle. Sentivo quei diversi movimenti, ma non mi riusciva indovinare lo scopo. Infine tutto si fece chiaro.
Dopo la benedizione, il gran vicario si tolse i paramenti, rivestì soltanto la cotta e la stola e si avvicinò ai gradini dell’altare dove io ero inginocchiata. I due ecclesiastici gli stavano a fianco e tutti e tre, guardando dalla mia parte, volgevano le spalle all’altare sul quale era esposto il Santissimo. Il gran vicario mi si avvicinò e mi disse:
“Alzatevi, suor Susanna.”
Le monache che mi trattenevano mi alzarono bruscamente, altre mi circondavano e mi tenevano per la vita come se avessero avuto paura che scappassi.
“Slegatela.”
Non gli obbedirono. Finsero di trovare poco opportuno e addirittura pericoloso lasciarmi libera, ma vi ho detto che quello era un uomo deciso, e infatti ripeté con voce ferma e dura:
“Slegatela.”
Obbedirono. Non appena ebbi le mani libere, emisi un lamento acuto e doloroso che lo fece impallidire; quelle monache ipocrite che erano vicino a me si scostarono come spaventate. Si riprese; le monache si riavvicinarono tremando; io rimasi immobile mentre egli mi diceva:
“Che cosa avete?”
Per tutta risposta gli mostrai le braccia: la corda con la quale me le avevano legate mi era penetrata profondamente nella carne che era tutta violetta per il sangue che non circolava quasi più e si era travasato. Credette che mi lamentassi per il dolore improvviso del sangue che ricominciava a circolare. Disse:
“Toglietele il velo.”
Era stato cucito in diversi punti senza che me ne accorgessi, di modo che fu necessario usare ancora violenza per una cosa che non l’avrebbe affatto richiesta; bisognava che quel prete mi vedesse ossessionata, invasata o pazza. A forza di tirare, il filo si ruppe in più punti, mentre il velo o il mio abito si strapparono da altre parti. Così mi videro.
Il mio viso è interessante; il profondo dolore l’aveva alterato, senza togliergli niente del suo carattere; la mia voce ha un timbro che tocca il cuore: si sente che la mia espressione è quella della verità. Tutte queste qualità messe insieme produssero una profonda impressione di pietà sui due giovani assistenti dell’arcidiacono. Lui, invece, era estraneo a questi sentimenti: era giusto, ma poco sensibile; apparteneva al novero di coloro che per loro sventura sono nati per praticare la virtù senza avvertirne la dolcezza; fanno il bene per un certo senso dell’ordine, così come ragionano. Prese un capo della stola e posandomela sulla testa mi disse:
“Suor Susanna, credete in Dio Padre, Figliolo e Spirito Santo?”
Risposi:
“Credo.”
“Credete nella nostra santa madre Chiesa?”
“Credo.”
“Rinunciate a Satana e alle sue opere?”
Invece di rispondere, con un gran grido feci un movimento improvviso in avanti e la stola non fu più a contatto della mia testa. Il vicario rimase turbato, i suoi compagni impallidirono; tra le monache, alcune fuggirono e le altre che erano nei loro stalli si alzarono in un gran tumulto. Fece cenno che stessero tranquille e intanto mi guardava e si aspettava di vedere qualcosa di straordinario. Lo rassicurai dicendo:
“Non è niente, signore. Una di queste suore mi ha punto con qualcosa di aguzzo.”
E alzando gli occhi e mani al cielo aggiunsi versando un fiume di lacrime:
“Mi hanno ferita nel momento in cui mi chiedevate se rinunciavo a Satana e alle sue opere, e capisco bene perché l’hanno fatto.”
Per bocca della superiora tutte protestarono vivamente che non mi avevano toccata. L’arcidiacono mi impose di nuovo la stola sulla testa; le monache stavano per riavvicinarsi, ma egli fece cenno che si scostassero e di nuovo mi chiese se rinunciavo a Satana e alle sue opere. Gli risposi fermamente:
“Rinuncio, rinuncio!”
Si fece portare un crocifisso e me lo dette da baciare; lo baciai sui piedi, sulle mani e sulla piaga del costato. Mi ordinò di adorarlo ad alta voce: io lo posai per terra e dissi in ginocchio:
“Vi adoro, mio Dio, mio salvatore, voi che siete morto sulla croce per i miei peccati e per tutti quelli del genere umano; concedetemi il merito dei vostri patimenti; fate scendere su di me una goccia del sangue che avete versato e fate ch’io sia purificata. Mio Dio, perdonatemi come io perdono a tutti i miei nemici.”
Poi mi disse:
“Fate un atto di fede”, e lo feci..
“Fate un atto d’amore”, e lo feci..
“Fate un atto di speranza”, e lo feci..
“Fate un atto di carità”, e lo feci.
Non ricordo con quali parole li avessi formulati, ma ritengo che sembrassero patetiche, giacché strappai dei singhiozzi ad alcune monache, feci versare lacrime ai due giovani ecclesiastici e l’arcidiacono stupito mi chiese da dove avessi tratto le preghiere che avevo appena recitato. Gli risposi:
“Dal fondo del cuore; sono questi i miei pensieri e i miei sentimenti. Chiamo a testimone Dio che ci ascolta ovunque ed è presente su questo altare. Sono cristiana, sono innocente; se ho commesso qualche colpa, lo sa Dio soltanto, e lui soltanto ha il diritto di chiedermene conto e di punirmi...”
A queste parole, il gran vicario lanciò alla superiora uno sguardo terribile.
Il resto di quella cerimonia in cui la maestà di Dio era stata insultata, le cose più sante profanate e il ministro della Chiesa ingannato, giunse alla fine e le monache si ritirarono. Con me rimasero la superiora e i giovani ecclesiastici. L’arcidiacono si sedette, e tirando fuori il rapporto che gli era stato presentato contro di me, lo lesse ad alta voce e mi interrogò sui capi d’accusa che conteneva.
“Perché non vi confessate?” mi chiese.
“Perché me lo impediscono.”
“Perché non vi avvicinate ai Sacramenti?”
“Perché me lo impediscono.”
“Perché non assistete né alla messa, né alle funzioni religiose?”
“Perché me lo impediscono.”
La superiora volle prendere la parola, ma con quel suo tono particolare, il gran vicario le disse:
“Tacete, signora... Perché, di notte, uscite dalla vostra cella?”
“Perché mi hanno privato dell’acqua, della brocca per l’acqua, e di tutti i vasi necessari ai bisogni naturali.”
“Perché di notte si sente rumore nel vostro corridoio e nella vostra cella?”
“Perché fanno di tutto per togliermi il riposo.”
La superiora volle parlare ancora; per la seconda volta il gran vicario le disse:
“Vi ho già detto di tacere, signora; rispondete quando vi interrogherò... Che cos’è questa storia di una monaca che vi hanno strappata dalle mani e che è stata trovata riversa per terra nel corridoio?”
“È a causa dell’orrore che le avevano ispirato nei miei riguardi.”
“È amica vostra?”
“No, signore.”
“Non siete mai entrata nella sua cella?”
“Mai.”
“Non avete mai fatto niente di indecente a lei, o ad altre?”
“Mai.”
“Perché vi hanno legata?”
“Lo ignoro.”
“Perché la vostra cella non si chiude?”
“Perché ho rotto la serratura.”
“Perché l’avete rotta?”
“Per aprire la porta e assistere alla funzione il giorno dell’Ascensione.”
“Quel giorno, allora, vi hanno vista in chiesa?”
“Sì, signore.”
La superiora intervenne:
“Non è vero, signore, tutta la comunità...”
La interruppi:
“...assicurerà che la porta del coro era chiusa; che mi hanno trovata prosternata davanti a quella porta e che voi avete ordinato di calpestarmi. Alcune lo hanno fatto; ma io le perdono e perdono voi, signora, per quell’ordine che avete dato. Non sono venuta per accusare, ma per difendermi.”
“Perché non avete né rosario, né crocifisso?”
“Perché me li hanno tolti.”
“Dov’è il vostro breviario?”
“Me l’hanno tolto.”
“Ma allora, in che modo pregate?”
“Prego con il cuore e con la mente, benché mi abbiano proibito di pregare.”
“Chi ve l’ha proibito?”
“La signora.”
La superiora si accingeva di nuovo a parlare.:
“Signora, - le disse - è vero o falso che le avete proibito di pregare? Rispondete sì o no.”
“Io credevo, e avevo motivo di credere...”
“Non si tratta di questo; le avete, sì o no, proibito di pregare?”
“Gliel’ho proibito, ma...”
Stava per proseguire.
“Ma,” riprese l’arcidiacono, “ma... Suor Susanna, perché siete a piedi nudi?”
“Perché non mi danno né calze, né scarpe.”
“Perché la vostra biancheria e i vostri abiti sono così logori e sporchi?”
“Perché da più di tre mesi mi rifiutano la biancheria e perché sono costretta a coricarmi vestita.”
“Perché vi coricate vestita?”
“Perché non ho né tende, né materasso, né coperte, né lenzuola, né camicia da notte.”
“Perché non ne avete?”
“Perché me li hanno tolti.”
“Vi danno da mangiare?”
“Lo domando.”
“Allora non ve ne danno?”
Tacqui, egli soggiunse:
“È davvero incredibile un trattamento così severo senza che abbiate commesso qualche colpa che l’abbia meritato.”
“La mia colpa sta nel non avere vocazione religiosa, e di aver fatto ricorso contro dei voti che non ho pronunciato liberamente.”
“La decisione in merito spetta alle leggi, e in qualunque modo si pronuncino, voi siete intanto tenuta ad adempiere i doveri della vita religiosa.”
“Nessuno, signore, li adempie con maggiore scrupolo.”
“Dovete essere trattata alla stessa stregua delle vostre compagne.”
“Non chiedo altro.”
“Non avete da lamentarvi di nessuno?”
“No, signore, ve l’ho detto, non sono venuta per accusare, ma per difendermi.”
“Andate.”
“Dove debbo andare, signore?”
“Nella vostra cella.”
Feci qualche passo, poi tornai e mi prosternai ai piedi della superiora e dell’arcidiacono.
“Ebbene?” mi disse l’arcidiacono, “che c’è di nuovo?”
Mostrandogli la testa tutta contusa, i piedi insanguinati, le braccia scarnite e piene di lividi, l’abito sporco e strappato, gli dissi: “Guardate!”
Mi pare di sentirvi, signor marchese, voi e la maggior parte di coloro che leggeranno queste memorie: “tanti orrori, così diversi, così ininterrotti! Un susseguirsi di atrocità così raffinate in anime religiose! È inverosimile,” direte voi e diranno gli altri. Sono d’accordo; ma tutto questo è vero, e possa il cielo, ch’io chiamo a testimone, giudicarmi con tutto il suo rigore e condannarmi al fuoco eterno, se ho permesso alle calunnie di oscurare una di queste righe con la sua ombra più leggera. Benché a lungo abbia provato come l’avversione di una superiora rappresentasse uno stimolo potente alla perversità naturale, soprattutto allorché questa può farsi un merito, lodarsi e vantarsi dei propri misfatti, il risentimento non mi impedirà di essere giusta. Più ci penso, e più mi convinco che ciò che mi accade non era ancora accaduto a nessuno e forse mai più accadrà. Alla Provvidenza, le cui vie ci sono ignote, piacque una volta (e piacesse a Dio che fosse la prima e l’ultima) accumulare su una sola sventurata tutte quante le crudeltà che per i suoi imperscrutabili disegni sono suddivise tra la moltitudine infinita delle sventurate che l’avevano preceduta in un chiostro e che sarebbero venute dopo di lei. Ho sofferto, ho sofferto molto; ma mi sembra, e mi è sempre sembrato, che il destino di quelle che mi perseguitano fosse da compiangersi molto più del mio. Preferirei, avrei preferito morire piuttosto che cambiarmi con loro. Spero che per la vostra bontà le mie sofferenze finiscano. Il ricordo, la vergogna, e i rimorsi del male commesso non le abbandoneranno fino all’ora suprema. Già si accusano fra di loro, siatene certo; si accuseranno per tutta la vita, e il terrore scenderà con loro nella tomba. Nonostante questo, signor marchese, la mia situazione presente è deplorevole, la vita è un gran peso; sono una donna e il mio spirito è debole come in tutte quelle del mio sesso; Dio può abbandonarmi e non mi sento più né la forza, né il coraggio di sopportare ancora quello che ho sopportato. Signor marchese, state attento, un momento fatale potrebbe tornare; quand’anche foste straziato dai rimorsi, quand’anche consumaste i vostri occhi a piangere sul mio destino, non per questo risalirei dall’abisso in cui fossi caduta. Quell’abisso si chiuderebbe per sempre su una disperata.
“Andate,” mi disse l’arcidiacono.
Uno dei due ecclesiastici mi tese la mano per farmi rialzare, e l’arcidiacono aggiunse:
“Ho interrogato voi; ora interrogherò la vostra superiora, e non uscirò di qui prima che l’ordine sia stato ristabilito.”
Mi ritirai. Il convento era in allarme; tutte le monache erano sulla soglia delle loro celle e si parlavano da un capo all’altro del corridoio. Non appena io apparvi, si ritirarono e ci fu un lungo sbatacchiare di porte che si chiudevano con violenza le une dopo le altre. Rientrai nella mia cella; mi misi in ginocchio contro il muro, e pregai Dio di tener conto della moderazione con la quale avevo parlato all’arcidiacono e di fargli riconoscere la mia innocenza e la verità.
Stavo pregando allorché l’arcidiacono, i suoi due accompagnatori e la superiora comparvero nella mia cella. Vi ho già detto che nella mia cella ero senza tende, senza sedia, senza inginocchiatoio, senza materasso, senza coperte, senza lenzuola, senza vaso di sorta, senza porta che chiudesse, e con i vetri quasi tutti rotti alla finestra. Mi alzai, e l’arcidiacono fermandosi di botto e volgendo gli occhi pieni di indignazione verso la superiora, le disse:
“Allora, signora?”
“Lo ignoravo,” fu la sua risposta.
“Lo ignoravate? Voi mentite! Avete forse trascorso un solo giorno senza venire qui, e non ne venivate quando siete scesa?... Suor Susanna, parlate: la superiora non è entrata qui oggi?”
Non risposi. Non insisté; ma i due giovani ecclesiastici, lasciando cadere le braccia, con la testa bassa e gli occhi rivolti a terra, non potevano nascondere la loro pena e il loro stupore. Uscirono tutti, e io sentii l’arcidiacono che diceva alla superiora nel corridoio:
“Siete indegna della vostra carica; meritereste di essere deposta. Esporrò le mie accuse a monsignore. Intanto, si ripari a questo disordine prima ch’io me ne vada.”
E mentre continuava a camminare e a scuotere la testa, andava dicendo:
“È orribile. Delle cristiane! Delle monache! Delle creature umane! orribile.”
Da quel momento non sentii più parlare di niente, ma ebbi biancheria, tende, lenzuola, coperte, vasi, il mio breviario, i libri di pietà, il rosario, il crocifisso, i vetri alle finestre, in una parola tutto ciò che mi restituiva allo stato comune delle monache; mi fu ridata anche la possibilità di andare in parlatorio, ma soltanto per parlare della mia causa.
La mia causa andava male. Il signor Manouri pubblicò un primo memoriale che fece poca impressione. C’erano troppa intelligenza, scarso sentimento, pochissime ragioni. Non è il caso di farne una colpa al mio abile avvocato. Io non volevo assolutamente che ledesse la reputazione dei miei genitori; volevo che risparmiasse lo stato religioso e soprattutto il convento in cui mi trovavo; non volevo che dipingesse con tinte troppo odiose i miei cognati e le mie sorelle. In mio favore c’era soltanto una prima protesta, a onor del vero solenne, ma fatta in un altro convento e mai rinnovata da allora. Quando si impongono dei limiti così ristretti alla propria difesa e si ha a che fare con un avversario che invece scatena liberamente i propri attacchi, che calpesta il giusto e l’ingiusto, che afferma e nega con la stessa impudenza e che non arrossisce né delle accuse, ne dei sospetti, né della maldicenza, né della calunnia, è difficile vincere un processo, specialmente davanti a dei tribunali dove la noia e l’abitudine delle cause trattate non permettono quasi che si esaminino con un certo scrupolo quelle più importanti, e dove le contestazioni come la mia vengono sempre considerate con occhio critico dall’uomo politico. Questi teme infatti che sulla scia del successo di una monaca che ricorra contro i propri voti, un’infinità di altre monache tentino lo stesso passo. Segretamente si avverte che se si tollerasse che le porte di quelle prigioni venissero abbattute a favore di una sventurata, vi accorrerebbe una folla intera e cercherebbe di forzarle. Fanno di tutto per scoraggiarci e farci rassegnare al nostro destino inducendoci a disperare di poterlo mai cambiare. Eppure a me sembra che in uno Stato ben organizzato dovrebbe essere il contrario: entrare in religione difficilmente, uscirne facilmente. E perché non aggiungere questo caso a tanti altri in cui il benché minimo vizio di forma rende nulla una procedura peraltro ineccepibile? I conventi sono così essenziali alla costituzione di uno Stato? I monaci e le monache li ha forse istituiti Gesù Cristo? La Chiesa non può proprio farne a meno? Che bisogno ha lo sposo di tante vergini folli, e la specie umana di tante vittime? Non si sentirà mai la necessità di ridurre l’ampiezza di queste voragini in cui si perdono le generazioni future? Tutto quel pregare per abitudine, vale un obolo che la pietà offre a un povero? Dio, che ha creato l’uomo socievole, approva forse che l’uomo si rinchiuda? Dio, che l’ha creato così incostante, così fragile, può forse autorizzare l’audacia dei voti? Quei voti che contraddicono la tendenza generale della natura, potranno mai essere osservati se non da poche creature, mal costituite, in cui i germi delle passioni sono appassiti e che si potrebbero a buon diritto collocare tra i mostri se i nostri lumi ci permettessero di conoscere la struttura interna dell’uomo con la stessa facilità con cui ne conosciamo la sua forma esterna? Tutte quelle lugubri cerimonie con le quali si celebrano la vestizione e la professione quando si consacra un uomo o una donna alla vita monastica e all’infelicità, sospendono forse le funzioni animali? O invece queste si risvegliano nel silenzio, nella costrizione e nell’ozio con una violenza che ignora la gente libera, presa com’è da tante distrazioni? Dov’è che si trovano menti ossessionate da spettri impuri che le perseguitano e le sconvolgono? Dov’è che si trova quella noia profonda, quel pallore, quella magrezza, tutti sintomi della natura che langue e si consuma? Dove sono le notti turbate da gemiti, i giorni bagnati di lacrime versate senza ragione e precedute da una malinconia che non si sa a che cosa attribuire? Dov’è che la natura, rivoltandosi contro una costrizione per la quale non è creata, infrange gli ostacoli che le vengono frapposti, diventa furiosa, trascina l’economia animale in un disordine senza rimedio? Dov’è che il dolore e il malumore hanno annullato tutte le qualità sociali? Dov’è che non si trova né padre, né madre, né fratello, né sorella, né parente, né amico? Dov’è che l’uomo, considerandosi soltanto come un essere caduco, tratta i legami più dolci di questo mondo con distacco, come un viaggiatore tratta gli oggetti in cui si imbatte? Dove hanno dimora il turbamento, il disgusto, i deliqui? Dov’è la sede del servilismo e del dispotismo? Dove sono gli odi che non si spengono? Dove sono le passioni covate nel silenzio? Dove hanno dimora la crudeltà e la curiosità? Non conosciamo la storia di questi asili - continuava il signor Manouri nella sua arringa - non la conosciamo. E in un altro punto aggiungeva: “Fare voto di povertà, significa impegnarsi con giuramento ad essere pigro e ladro; fare voto di castità, significa promettere a Dio l’infrazione costante della più saggia e della più importante delle sue leggi; far voto d’obbedienza vuol dire rinunciare alla prerogativa inalienabile dell’uomo, la libertà. Se si osservano questi voti, si è criminali; se non si osservano, si è spergiuri. La vita claustrale è una vita da fanatici o da ipocriti.”
Una fanciulla chiese ai genitori il permesso di entrare nel nostro convento. Suo padre le disse che acconsentiva, ma che le dava tre anni per riflettere. L’imposizione parve dura alla giovane tutta piena di fervore; nondimeno dovette sottomettersi. Poiché la sua vocazione era sempre salda, ella tornò dal padre per dirgli che tre anni erano ormai trascorsi.
“Bene, figlia mia,” le rispose il padre, “vi ho accordato tre anni per mettervi alla prova, spero che vorrete accordarmene altrettanti per prendere la mia decisione.”
Questa nuova imposizione parve molto più dura alla fanciulla che vi sparse sopra qualche lacrima, ma il padre era un uomo risoluto e tenne duro. Dopo quasi sei anni, ella entrò in convento, fece professione. Era una buona monaca, semplice, pia, precisa in tutti i suoi doveri, ma volle il caso che i direttori abusassero della sua franchezza per informarsi, in confessione, su ciò che accadeva nel convento. Le nostre superiore lo sospettarono; la rinchiusero, le proibirono qualunque esercizio religioso; diventò pazza. Come potrebbe resistere la testa alla persecuzione di cinquanta persone che dalla mattina alla sera non fanno altro che tormentarvi? Precedentemente, avevano teso alla madre un tranello che mette bene in luce l’avarizia del chiostro. Ispirarono alla madre della reclusa il desiderio di recarsi al convento e di visitare la cella della figlia. Si rivolse ai vicari che le accordarono il permesso richiesto. Entrò, corse alla cella della sua figliola, ma quale fu il suo stupore nel vedere soltanto quattro pareti nude. Avevano portato via tutto, certe che quella madre tenera e sensibile non avrebbe lasciato la figliola in tale stato. Infatti fece mettere altri mobili nella cella, la rifornì di indumenti e di biancheria, affermando chiaramente alle monache che quella curiosità le costava troppo cara per potersela permettere una seconda volta, e che tre o quattro visite all’anno come quella avrebbero rovinato gli altri suoi figli. L’ambizione e il lusso sacrificano nei conventi una parte delle famiglie per avvantaggiare l’altra che ne rimane fuori. Sono la sentina in cui vengono gettati i rifiuti della società. Quante madri come la mia espiano una colpa segreta con un’altra colpa.
Il signor Manouri rese pubblico un secondo memoriale che ottenne un po’ più d’effetto. Vi furono calorosi interventi a mio favore. Ancora una volta proposi alle mie sorelle di lasciar loro il possesso intero e indisturbato dell’eredità dei miei genitori. Vi fu un momento in cui il mio processo prese una piega assai favorevole e in cui io sperai nella libertà; il mio disinganno fu perciò più grande. All’udienza la mia causa fu perorata e perduta. L’intera comunità ne era al corrente quando ancora io non ne sapevo niente. Era tutto un agitarsi frenetico, un gioire, piccoli abboccamenti segreti, un andare e venire dalla superiora, un incrociarsi di visite tra le monache. Io ero tutta un tremito; non potevo restare nella mia cella e non potevo uscirne; non c’era un’amica tra le cui braccia potessi rifugiarmi. Com’è crudele la mattina in cui si pronuncia la sentenza di un grande processo! Volevo pregare, ma non ci riuscivo; mi inginocchiavo, mi raccoglievo, cominciavo una preghiera, ma la mia mente finiva sempre, mio malgrado, per essere trascinata tra i miei giudici: li vedevo, sentivo gli avvocati, mi rivolgevo a loro, interrompevo il mio, trovavo che la mia causa non era difesa a dovere. Non conoscevo nessuno dei magistrati, eppure me li figuravo in mille modi, ora favorevoli, ora loschi, ora indifferenti. Ero indicibilmente agitata, con le idee confuse. Al rumore succedette un profondo silenzio; le monache non si parlavano più; mi parve che nel coro le loro voci fossero più squillanti del solito: o per lo meno le voci di quelle che cantavano, poiché ve n’erano che non cantavano affatto. Terminata la funzione, si ritirarono in silenzio. Pensai che l’attesa le rendesse inquiete come me. Nel pomeriggio però, rumore e movimento ripresero dappertutto improvvisamente: sentii porte che si aprivano e si chiudevano, monache che andavano e venivano, il mormorio di persone che si parlavano a voce bassa. Avvicinai l’orecchio alla serratura, ma mi parve che tacessero mentre passavano e che camminassero in punta di piedi. Intuii di aver perso il processo; il dubbio non mi sfiorò neppure per un istante. Cominciai a girare per la cella senza dir parola; soffocavo, non riuscivo nemmeno a lamentarmi. Incrociavo le braccia sulla testa, appoggiavo la fronte ora contro un muro, ora contro l’altro; volevo riposarmi sul letto, ma il cuore mi batteva tanto forte da impedirmelo: sono certa che sentivo battere il mio cuore e in tal maniera di sollevare l’abito. Ero in questo stato allorché vennero a dirmi che chiedevano di me. Scesi, ma non osavo andare avanti. La suora che mi aveva avvertita era così allegra che ne dedussi che la notizia da comunicarmi doveva essere ben triste; e tuttavia andai. Giunta davanti alla porta del parlatorio mi fermai di botto e mi rifugiai in un angolo fra due pareti; non riuscivo a reggermi in piedi. Ciò nonostante entrai. Non c’era nessuno; aspettai; avevano fatto in modo che colui che mi aveva fatto chiamare, comparisse prima di me. Naturalmente pensavano che fosse un emissario del mio avvocato e volevano sapere quel che sarebbe accaduto fra noi due. Perciò si erano tutte riunite per ascoltare. Quando comparve, io ero seduta con la testa piegata sul braccio e appoggiata contro le sbarre della grata.
“Vengo da parte del signor Manouri,” mi disse.
“È per informarmi che ho perduto il processo,” replicai.
“Non lo so, signora, ma egli mi ha consegnato questa lettera. Aveva l’aria molto addolorata quando me l’ha consegnata e sono venuto di corsa, come mi ha raccomandato.”
“Datemi...”
Mi tese la lettera ed io la presi senza muovermi e senza guardarlo; la posai sulle ginocchia e non cambiai posizione. L’uomo mi chiese: “Non c’è nessuna risposta?”
“No,” gli dissi. “Andate pure.”
Se ne andò, mentre io rimasi immobile senza potermi muovere, né decidermi a uscire.
In convento non è consentito scrivere, né ricevere lettere senza il permesso della superiora. A lei vengono consegnate sia quelle che si ricevono che quelle che si scrivono. Dovevo perciò portarle la mia.
Mi incamminai per farlo, ma credetti che non sarei mai arrivata. Un prigioniero che esca dalla cella per andare ad ascoltare la propria condanna non cammina più lentamente, né con maggior prostrazione. Eccomi davanti alla porta. Le monache mi scrutavano da lontano; non volevano perdere niente dello spettacolo del mio dolore e della mia umiliazione. Bussai, mi fu aperto. La superiora era con qualche altra monaca: me ne accorsi dall’orlo delle sottane giacché non osai alzare gli occhi. Le presentai la lettera con mano tremante; la prese, la lesse e me la restituì. Me ne tornai nella mia cella; mi buttai sul letto con la lettera accanto, e lì rimasi senza leggerla, senza alzarmi per andare a pranzo, senza fare nessun movimento fino all’uffizio del pomeriggio. Alle tre e mezzo la campana mi avvertì che era ora di scendere. Alcune monache erano già arrivate; la superiora che era all’ingresso del coro, mi fermò e mi chiese di mettermi in ginocchio lì fuori; le altre monache entrarono e la porta fu chiusa. Dopo la funzione, uscirono tutte quante; le lasciai passare e mi alzai per seguirle, ultima. Fin da quel momento cominciai a condannarmi da sola a tutto quello che avrebbero voluto: mi avevano proibito l’ingresso in chiesa, mi proibii spontaneamente il refettorio e la ricreazione. Presi in esame la mia condizione sotto tutti gli aspetti senza vedere altra via d’uscita se non nella necessità che avevano dei miei doni musicali e nella mia sottomissione. Mi sarei contentata di quella specie d’oblio in cui mi lasciarono per diversi giorni.
Vennero per me diverse persone a trovarmi, ma l’unica visita che mi fu dato di ricevere fu quella del signor Manouri. Entrando in parlatorio lo trovai esattamente come ero io quando avevo ricevuto il suo inviato, con la testa posata sulle braccia e le braccia appoggiate alla grata. Lo riconobbi, non gli dissi niente. Non osava guardarmi, né parlarmi.
“Signora,” mi disse senza muoversi, “vi ho scritto; avete ricevuto la mia lettera?”
“L’ho ricevuta, ma non l’ho letta.”
“Allora non sapete...”
“No, signore, non ignoro niente. Ho indovinato qual è il mio destino e sono rassegnata.”
“Come vi trattano?”
“Per il momento non si occupano ancora di me, ma il passato m’insegna ciò che l’avvenire mi prepara. Non ho che una consolazione, ed è che privata della speranza che mi sosteneva, è impossibile che soffra quanto ho già sofferto. Morirò. La colpa che ho commesso è di quelle che non si perdonano in convento. Non chiedo a Dio di intenerire il cuore di coloro alla cui discrezione gli è piaciuto abbandonarmi, bensì di concedermi la forza di soffrire, di salvarmi dalla disperazione e di chiamarmi a lui quanto prima.”
“Signora,” mi disse piangendo, “se foste stata mia sorella non avrei potuto far di meglio...”
Quest’uomo è di cuore sensibile.
“Signora,” soggiunse, “se posso esservi utile a qualcosa, disponete pure di me. Andrò a trovare il primo presidente che ha stima di me; andrò a trovare i grandi vicari e l’arcivescovo.”
“Non andate a trovare nessuno, signore, tutto è finito.”
“E se fosse possibile farvi cambiare convento?”
“Ci sono troppi ostacoli.”
“E quali sono questi ostacoli?”
“Un permesso difficile da ottenere, un’altra dote da costituire, se non si può ritirare quella consegnata al convento dove mi trovo. E poi, che cosa troverò in un altro convento? Il mio cuore inflessibile, superiore senza pietà, monache che non saranno migliori di queste, gli stessi doveri, le stesse pene. Tanto vale che finisca qui i miei giorni; saranno più brevi.”
“Ma, signora, molta gente onesta si è interessata al vostro caso e in genere si tratta di persone facoltose. Non cercheranno di trattenervi qui, se ve ne andate senza portar via niente.”
“Questo lo credo anch’io.”
“Una monaca che se ne va o che muore, accresce il benessere di quelle che restano.”
“Ma quella gente onesta, quelle persone facoltose non pensano più a me, e vedrete la loro freddezza quando si tratterà di farmi una dote a loro spese. Perché volete che sia più facile per la gente di mondo far uscire dal chiostro una monaca senza vocazione che per le persone pie farvene entrare una che abbia una vera vocazione? È forse più facile dare a quest’ultima una dote? Mio caro signore, tutti si sono tirati indietro; dal giorno che ho perso il processo, non vedo più nessuno.”
“Affidatemi, signora, questo incarico; vedrete che sarò più fortunato.”
“Non chiedo nulla, non spero nulla e a nulla mi oppongo; in me si e spezzata anche l’ultima molla. Se solo potessi sperare che Dio opererà in me un cambiamento e che le qualità necessarie allo stato monastico prenderanno il posto nella mia anima della speranza ormai perduta di abbandonarlo... Ma è impossibile; questo abito mi si è incollato alla pelle, alle ossa, e non me ne viene che un maggior disagio. Ah, che destino! Essere per sempre monaca, e sentire che non sarò mai altro che una cattiva monaca! passare tutta la vita a battere la testa contro le sbarre della prigione!”
A questo punto mi misi a gridare; cercavo, ma non potevo, di soffocare le mie grida. Il signor Manouri, sorpreso da quello sfogo, mi chiese: “Potrei farvi una domanda, signora?”
“Fate pure, signore.”
“Un dolore così cocente ha forse qualche segreto motivo?”
“No, signore. Odio la vita solitaria, sento bene che la odio, sento che la odierò sempre. Non potrei mai assoggettarmi a tutte le meschinità di cui è intessuta la giornata di una reclusa; è una trama di puerilità che disprezzo. Se avessi potuto, mi ci sarei abituata. Cento volte ho cercato di impormelo, di piegarmi ai suoi obblighi; non mi riesce. Ho invidiato, ho chiesto a Dio quella felice imbecillità delle mie compagne; non l’ho ottenuta, e non me la concederà. Faccio tutto male, dico tutto di traverso; la mancanza di vocazione traspare da tutti i miei atti, è chiaro. Ad ogni istante insulto la vita monastica. Chiamano orgoglio la mia inettitudine; si ingegnano a umiliarmi. Colpe e punizioni si moltiplicano senza fine e le giornate trascorrono a misurare con gli occhi l’altezza dei muri.”
“Non posso abbatterli, signora, ma posso fare qualcos’altro.”
“Non tentate di far niente, signore.”
“Voi dovete cambiare convento, e io me ne occuperò. Verrò di nuovo a trovarvi: spero che non vi nascondano. Avrete presto mie notizie. State tranquilla che se siete d’accordo, riuscirò a farvi uscire di qui. Se dovessero maltrattarvi, fatemelo sapere.”
Era tardi quando il signor Manouri se ne andò. Tornai nella mia cella e poco dopo suonò l’uffizio della sera. Giunsi fra le prime. Lasciai passare le monache e mi tenni per detto che dovevo restare fuori della porta. Infatti la superiora me la chiuse in faccia. La sera, a cena, mi fece cenno, mentre entravo, di sedermi per terra in mezzo al refettorio. Le obbedii e non mi servirono altro che pane e acqua. Ne mangiai un po’ annaffiandolo di lacrime. L’indomani fu tenuto consiglio. Tutta quanta la comunità fu chiamata a giudicarmi. Fui condannata a rimanere senza ricreazione, a seguire per un mese l’uffizio dalla porta del coro, a mangiare pane seduta per terra in mezzo al refettorio, a fare onorevole ammenda per tre giorni di seguito, a rinnovare la vestizione e i voti, a portare il cilicio, a digiunare un giorno su due, a flagellarmi dopo l’uffizio della sera, ogni venerdì. Mentre veniva pronunciata la sentenza, io stavo in ginocchio, con il velo sugli occhi.
Fin dal giorno dopo, la superiora venne nella mia cella con una monaca che portava un cilicio sul braccio e quell’abito di stoffa grossolana con cui mi avevano fatta vestire quando ero stata condotta nella segreta. Capii che cosa volesse dire: mi spogliai, o meglio mi strapparono il velo e tutto quello che indossavo. Poi indossai quell’abito. Avevo la testa nuda, i piedi nudi, i miei lunghi capelli mi ricadevano sulle spalle, e tutto il mio abbigliamento si riduceva a quel cilicio che mi avevano dato, a una camicia ruvida e a quell’abito che dal collo mi scendeva fino ai piedi. Fu così che rimasi vestita per tutta la giornata e che comparvi a tutti gli esercizi.
La sera, allorché mi fui ritirata nella cella sentii che venivano verso di me salmodiando le litanie; era tutto il convento disposto su due file. Entrarono, ed io mi presentai. Mi misero una corda intorno al collo, in una mano mi misero una fiaccola accesa e nell’altra una disciplina. Una monaca afferrò un capo della corda, mi tirò tra le due file e la processione si incamminò verso un piccolo oratorio interno consacrato a Santa Maria. Erano arrivate cantando a bassa voce; se ne andarono in silenzio. Arrivata che fui all’oratorio rischiarato da due luci, mi ingiunsero di chiedere perdono a Dio e alla comunità per lo scandalo provocato. La monaca che mi teneva per la corda mi andava dicendo a bassa voce quel che dovevo ripetere, ed io lo ripetevo parola per parola. Dopo di che mi tolsero la corda, mi spogliarono fino alla vita, mi raccolsero i capelli che erano sparsi sulle spalle, li fecero andare da una sola parte del collo, mi misero nella mano destra la disciplina che prima era nella mano sinistra, e intonarono il Miserere. Capii che cosa si aspettavano da me, e lo eseguii. Terminato il Miserere, la superiora mi rivolse una breve esortazione. Furono spente le luci, le monache si ritirarono ed io mi rivestii.
Dopo che fui rientrata nella mia cella, avvertii dei violenti dolori ai piedi; guardai e vidi che erano tutti coperti di sangue a causa dei tagli prodotti da cocci di vetro che per cattiveria avevano disseminato sul mio cammino.
Nei due giorni seguenti feci onorevole ammenda nello stesso modo. L’ultimo giorno, aggiunsero un salmo al Miserere.
Il quarto giorno mi restituirono l’abito religioso all’incirca con la stessa cerimonia con la quale lo si indossa nelle solennità pubbliche.
Il quinto giorno rinnovai i voti. Per un mese eseguii il resto della penitenza che mi avevano imposto, dopo di che rientrai più o meno nell’ordine solito della comunità, ripresi il mio posto nel coro e nel refettorio, ripresi a eseguire i compiti che mi spettavano nel convento. Ma quale fu la mia sorpresa allorché posai gli occhi sulla giovane amica che si interessava alla mia sorte. Mi parve cambiata quasi quanto me; era di una magrezza spaventosa; il suo volto era soffuso del pallore della morte, aveva le labbra bianche e gli occhi semi spenti. Le dissi a bassa voce:
“Suor Orsola, che cosa avete?”
Mi rispose:
“Che cos’ho? Vi voglio bene, e voi me lo chiedete! Era ora che finisse il vostro supplizio o io ne sarei morta.”
Se negli ultimi due giorni della mia onorevole ammenda non mi ero ferita i piedi, era perché lei aveva avuto il pensiero di spazzare furtivamente i corridoi ammucchiando sui lati i cocci di vetro. I giorni in cui ero condannata a digiunare a pane e acqua, lei si privava di una parte della sua razione di cibo che avvolgeva in un panno bianco e buttava nella mia cella. Avevano estratto a sorte il nome delle monache che avrebbero dovuto tirarmi per la corda ed era toccato a lei. Risolutamente era andata dalla superiora e le aveva affermato che avrebbe preferito morire piuttosto che assolvere quel compito infame e crudele. Per fortuna quella fanciulla apparteneva a una famiglia assai stimata e godeva di una cospicua pensione che amministrava secondo i voleri della superiora. Per qualche libbra di zucchero e di caffè trovò una monaca che la sostituì. Non ardirei pensare che la mano di Dio si sia abbattuta su quella monaca indegna, ma ella è diventata pazza ed è stata rinchiusa. La superiora, invece vive, governa, tormenta, e sta benissimo.
Non era possibile che la mia salute resistesse a prove così lunghe e così dure. Mi ammalai. Fu in tale circostanza che suor Orsola dimostrò tutta l’amicizia che nutriva per me: debbo a lei la vita. A volte lei stessa mi diceva che non era un bene aiutarmi a mantenermi in vita, eppure non vi era servigio che non mi rendesse nei giorni in cui il turno di infermiera spettava a lei. Se gli altri giorni non ero abbandonata, era grazie al suo interessamento, alle piccole ricompense che distribuiva a quelle che vegliavano su di me a seconda che ne fossi stata più o meno soddisfatta. Aveva chiesto di vegliare su di me la notte e la superiora le aveva opposto un rifiuto col pretesto che era troppo delicata per affrontare una simile fatica. Per lei fu un vero dolore. Tutte le sue cure non impedirono che il male progredisse. Mi ridussi agli estremi e ricevetti l’Estrema Unzione. Qualche minuto prima avevo chiesto di vedere tutta la comunità riunita. Mi fu accordato. Le monache circondarono il mio letto, e la superiora stava in mezzo a loro. Al capezzale c’era la mia giovane amica che mi teneva una mano e la ricopriva di lacrime. Supponendo che avessi qualcosa da dire, mi sollevarono e mi tennero seduta contro due guanciali. Rivolgendomi alla superiora, la pregai allora di concedermi la sua benedizione e il perdono delle colpe che avevo commesso: chiesi perdono a tutte le mie compagne per lo scandalo che avevo dato. Mi ero fatta portare accanto un’infinità di piccolezze che servivano ad abbellire la mia cella o che servivano a me personalmente, e pregai la superiora che mi permettesse di disporne; ella acconsentì ed io le detti a quelle che le erano servite da satelliti allorché mi avevano gettata nella segreta. Feci avvicinare la monaca che mi aveva tirata per la corda il giorno della mia onorevole ammenda e mentre la baciavo e le presentavo il mio rosario e il mio crocifisso le dissi:
“Cara sorella, ricordatemi nelle vostre preghiere e siate certa che non vi dimenticherò davanti a Dio...”
Ma perché Dio non mi ha presa in quel momento? Stavo andando a lui senza turbamento. È una felicità così grande, e chi può assicurarsela una seconda volta? Che ne sarà di me nel momento supremo? Bisogna pure che ci arrivi. Possa Dio rinnovare i miei tormenti e concedermene uno altrettanto sereno! Vedevo i cieli spalancati, e certamente lo erano, giacché la coscienza in quei momenti non inganna, ed essa mi prometteva una felicità eterna.
Dopo aver ricevuto i sacramenti, caddi in una specie di letargia. Le mie condizioni rimasero disperate per tutta quella notte. Di tanto in tanto venivano a tastarmi il polso; sentivo mani che mi sfioravano il volto, udivo voci diverse che dicevano come in lontananza: “Sta salendo... Il naso è freddo... Non arriverà a domani... Il rosario e il crocifisso saranno per voi...” E un’altra voce piena di corruccio protestava: “Andate via, andate via; lasciatela morire in pace; non l’avete forse tormentata abbastanza?” Fu un momento davvero dolce per me, quello in cui uscendo dalla crisi e riaprendo gli occhi, mi ritrovai tra le braccia della mia amica. Non mi aveva mai lasciata: aveva trascorso la notte ad assistermi, a ripetere le preghiere degli agonizzanti, a farmi baciare il crocifisso accostandolo alle proprie labbra dopo averlo staccato dalle mie. Nel vedermi spalancare gli occhi e trarre un profondo sospiro, credette che fosse l’ultimo. E allora si mise a gridare e a chiamarmi sua amica, a dire: “Mio Dio, abbiate pietà di lei, e di me! Mio Dio, accogliete la sua anima! Cara amica, quando sarete al cospetto di Dio, ricordatevi di suor Orsola...” La guardai sorridendo tristemente, versando una lacrima e stringendole la mano.
In quel momento arrivò il dottor Bouvard che era il medico del convento. A quel che dicono è un uomo che sa il fatto suo, ma è dispotico, orgoglioso e rude.
Allontanò sgarbatamente la mia amica; mi tastò il polso e la pelle. Lo accompagnavano la superiora e le sue favorite. A monosillabi fece qualche domanda su quanto era accaduto e commentò: “Se la caverà.” E guardando la superiora alla quale tale affermazione sembrava piacere poco:
“Sì, signora,” soggiunse, “se la caverà; la pelle ha un aspetto normale, la febbre è caduta e gli occhi cominciano a dar segno di vita.”
A ciascuna delle sue parole, la gioia illuminava il volto della mia amica, mentre su quello della superiora e delle sue compagne si andava manifestando non so qual disappunto dissimulato a fatica.
“Signore,” dissi al dottore, “non chiedo di vivere.”
“Peggio per voi,” fu la sua risposta.
Dette un ordine e se ne andò. Pare che durante la letargia avessi ripetuto diverse volte:
“Cara madre, vengo a raggiungervi, e vi dirò tutto.” Certamente mi rivolgevo alla mia superiora di prima. Non detti a nessuno il suo ritratto: volevo portarlo con me nella tomba.
Si avverò la previsione del dottor Bouvard; la febbre diminuì e scomparve del tutto con l’aiuto di abbondanti sudorazioni. Nessuno ebbe più dubbi sulla mia guarigione. In effetti guarii, ma ebbi una convalescenza assai lunga.
Era scritto che in quel convento avrei sofferto tutti i patimenti possibili e immaginabili. Nella mia malattia c’era stato come un maligno contagio. Suor Orsola non mi aveva quasi mai lasciata. Allorché cominciai a recuperare le forze, le sue cominciarono a declinare. La sua digestione divenne difficile; nel pomeriggio era presa da svenimenti che a volte duravano un quarto d’ora. Quando era in quello stato, era come morta. La vista le si velava, un sudore freddo le imperlava la fronte e le gocce le scivolavano lungo le guance. Le braccia le pendevano inerti lungo i fianchi. Solo slacciandole e allentandole un poco le vesti si riusciva a darle un po’ di sollievo. Quando si riprendeva da quegli svenimenti, il suo primo impulso era di cercarmi accanto a sé; mi trovava sempre. A volte, quando le rimaneva un po’ di sentimento e di conoscenza, muoveva una mano intorno a sé senza aprire gli occhi. Il gesto era così significativo che le monache, dopo essersi offerte al tocco di quella mano esitante che ricadeva inerte per non averle riconosciute, mi dicevano: “Vuole voi, suor Susanna, avvicinatevi...” Allora mi buttavo ai suoi ginocchi, attiravo quella sua mano sulla mia fronte e ve la lasciavo fino a che durava il suo svenimento. Quando era passato, mi diceva:
“Allora, suor Susanna, sarò io che me ne andrò, e voi invece rimarrete; sarò io che la rivedrò per prima, le parlerò di voi ed ella non mi potrà ascoltare senza piangere. Se vi sono lacrime amare, ve ne sono anche di molto dolci, e se lassù si ama, perché non vi si dovrebbe piangere?”
Reclinava la testa sul mio collo, versava molte lacrime, e poi soggiungeva:
“Addio, suor Susanna, addio amica mia. Chi condividerà le vostre pene quando io non ci sarò più? Chi ? Ah, amica mia, come vi compiango! Me ne vado, lo sento, me ne vado. Se foste felice, come rimpiangerei di morire!”
Il suo stato mi spaventava. Ne parlai alla superiora. Volevo che la mettessero in infermeria, che la dispensassero dagli uffizi e dalla fatica degli altri esercizi del convento, che chiamassero un medico. Mi risposero che non era niente di grave, che quegli svenimenti sarebbero passati da soli, e la cara suor Orsola non chiedeva di meglio che adempiere i propri obblighi e seguire la vita della comunità.
Un giorno, dopo il mattutino al quale era stata presente, non la si rivide. Pensai che stesse davvero male e terminato l’uffizio del mattino, corsi da lei. La trovai sdraiata sul letto tutta vestita. Mi disse:
“Siete qui, mia cara amica? Ero certa che non avreste tardato a venire e vi aspettavo. Statemi a sentire. Com’ero impaziente di vedervi! Il mio svenimento è stato tanto lungo e tanto profondo che ho creduto di morire e di non rivedervi più. Ecco, prendete: questa è la chiave del mio inginocchiatoio; aprirete lo stipetto, toglierete una piccola tavola che divide in due il cassetto in basso.
Dietro, vi troverete un pacchetto di carte; non mi sono mai potuta risolvere a separarmene, nonostante il pericolo che correvo nel conservarle e il dolore che provavo nel leggerle. Ahimè! le lacrime le hanno quasi completamente cancellate. Quando non ci sarò più, le brucerete.”
Era così debole e sfinita che non riuscì a pronunciare queste parole una di seguito all’altra. Si soffermava quasi ad ogni sillaba, e poi parlava a voce così bassa che a stento riuscivo a sentirla, benché avessi l’orecchio incollato alla sua bocca. Presi la chiave, le indicai col dito l’inginocchiatoio ed ella mi fece un cenno affermativo con la testa. Poi, presentendo che stavo per perderla, e persuasa che la sua malattia fosse una conseguenza della mia, o di tutta la pena che le avevo cagionato, o delle cure che mi aveva prodigato, mi misi a piangere e a disperarmi con tutta l’anima. Le baciai la fronte, gli occhi, il volto, le mani; le chiesi perdono. Ma lei era come distratta e non mi sentiva. Una delle sue mani si posava sul mio viso accarezzandolo; credo che non mi vedesse più, forse pensava che fossi uscita perché mi chiamò:
“Suor Susanna?”
“Eccomi,” le risposi.
“Che ore sono?”
“Sono le undici e mezzo.”
“Le undici e mezzo! Andate a pranzo; andate, tornerete subito.”
La campanella del pranzo suonò e dovetti lasciarla. Quando fui alla porta, mi richiamò. Tornai indietro. Fece uno sforzo per porgermi le guance; la baciai, mi prese la mano e me la tenne stretta. Sembrava che non volesse, che non potesse lasciarmi: “Eppure è necessario,” disse lasciandomi la mano. “Dio lo vuole. Addio, suor Susanna. Datemi il crocifisso.”
Glielo misi tra le mani e me ne andai.
Stavamo per alzarci da tavola. Mi rivolsi alla superiora e in presenza di tutte le monache le parlai del pericolo che correva suor Orsola, la sollecitai ad accertarsene di persona.
“In tal caso,” disse, “sarà bene andare a vederla.”
Salì, accompagnata da qualche altra monaca mentre io la seguivo. Entrarono nella cella. La poveretta era già spirata. Era stesa sul letto, tutta vestita, con la testa reclinata sul guanciale, la bocca semiaperta, gli occhi chiusi e il crocifisso tra le mani. La superiora la guardò freddamente e disse:
“È morta. Chi avrebbe mai detto che fosse così prossima alla fine. Era una gran brava figliola. Fate suonare le campane per lei, e seppellitela.”
Rimasi sola al suo capezzale. Non saprei descrivervi il mio dolore, e tuttavia invidiai la sua sorte. Mi avvicinai a lei, la coprii di lacrime, la baciai più volte e con il lenzuolo le coprii il viso, i cui lineamenti già cominciavano ad alterarsi. Poi pensai ad eseguire ciò che lei mi aveva raccomandato di fare. Per non essere interrotta durante quell’operazione, aspettai che tutte le monache fossero all’uffizio; aprii l’inginocchiatoio, tolsi la tavoletta e trovai un rotolo di carte abbastanza voluminoso che bruciai non appena scese la sera. Era sempre stata una fanciulla malinconica: non ricordo d’averla mai vista sorridere, salvo una volta durante la malattia.
Ero dunque rimasta sola in quel convento, sola al mondo, giacché non conoscevo un solo essere che si interessasse di me. Non avevo più sentito parlare dell’avvocato Manouri. Supponevo che fosse stato scoraggiato dalle difficoltà oppure che distratto dagli svaghi o dai suoi impegni, avesse ormai dimenticato completamente l’aiuto che mi aveva promesso. Non gliene serbavo rancore: per carattere sono portata all’indulgenza; posso perdonare tutto agli uomini, salvo l’ingiustizia, l’ingratitudine e l’inumanità. Scusavo perciò l’avvocato Manouri il più possibile, e tutta quella gente di mondo che durante il processo mi aveva dimostrato tanto interesse e per la quale non esistevo più, e anche voi, signor marchese, allorché i nostri superiori ecclesiastici fecero una visita al convento.
Entrano, percorrono le celle, interrogano le monache, si fanno rendere conto dell’amministrazione temporale e spirituale del convento, e secondo lo spirito con il quale assolvono le loro funzioni, pongono riparo o accrescono il disordine. Rividi così l’onesto e rude monsignor Hébert con i suoi due giovani e compassionevoli ecclesiastici. Ebbero l’aria di ricordare in quale stato deplorevole ero comparsa dinanzi a loro. I loro occhi si inumidirono e sul loro volto osservai l’intenerimento e la gioia. Monsignor Hébert si sedette, e mi fece sedere di fronte a lui; i suoi due coadiutori rimasero in piedi dietro la sua sedia; i loro sguardi erano fissi su di me. Monsignor Hébert mi disse:
“Allora, suor Susanna, come vi trattano adesso?”
“Mi dimenticano, signore”, gli risposi.
“Meglio così.”
“È quello che mi auguro anch’io, ma avrei una grazia importante da chiedervi: fate venire qui la madre superiora.”
“Perché?”
“Perché se mai dovessero lamentarsi di lei presso di voi, mi riterrà senz’altro responsabile.”
“Capisco. Ditemi comunque che cosa ne sapete.”
“Vi supplico di farla chiamare, signore, perché lei stessa senta le vostre domande e le mie risposte.”
“Parlate lo stesso.”
“Voi mi volete perdere, signore.”
“No, non abbiate paura; da oggi non siete più soggetta alla sua autorità; prima della fine della settimana sarete trasferita a Sant’Eutropio, poco lontano da Arpajon. Avete un amico fedele.”
“Un amico fedele, signore! Non ho nessun amico.”
“È il vostro avvocato.”
“Il signor Manouri?”
“In persona.”
“Non credevo che si ricordasse ancora di me.”
“È andato dalle vostre sorelle; è andato dal monsignore arcivescovo, dal primo presidente, da tutte le persone note per la loro pietà. Vi ha costituito una dote nel convento di cui vi ho parlato; dovrete restare qui per brevissimo tempo. Perciò, se siete a conoscenza di qualche disordine, potete mettermi al corrente senza compromettervi. Ve l’ordino per la santa obbedienza.”
“Io non so niente.”
“Come! dopo l’esito del vostro processo si sono comportate con voi con la dovuta moderazione?”
“Hanno creduto o hanno dovuto credere che avessi commesso una colpa appellandomi contro i miei voti e me ne hanno fatto chiedere perdono a Dio.”
“Sono proprio le circostanze di questo perdono che vorrei sapere.”
Così dicendo scuoteva la testa, aggrottava le sopracciglia. Mi resi conto che dipendeva soltanto da me far ricadere sulla superiora una parte dei colpi di disciplina che mi aveva fatto infliggere, ma tale non era la mia intenzione. L’arcidiacono capì che non avrebbe saputo niente da me e uscì raccomandandomi il segreto circa quanto mi aveva confidato sul trasferimento a Sant’Eutropio di Arpajon.
Mentre quell’eccellente monsignore Hébert s’incamminava da solo nel corridoio, i suoi due assistenti si voltarono e mi salutarono con aria assai affettuosa e dolce. Ignoro chi siano, ma che Dio mantenga loro quel carattere tenero e misericordioso così raro nel loro stato e che tanto si addice a chi è depositario della debolezza dell’uomo e intercessore della misericordia di Dio. Credevo che monsignor Hébert fosse intento a consolare, a interrogare o ad ammonire qualche altra monaca, allorché tornò nella mia cella.
“Come avete conosciuto il signor Manouri?”
“A causa del mio processo.”
“Chi vi ha affidato a lui?”
“La signora presidentessa.”
“Lo avete dovuto incontrare spesso nel corso della vostra causa?”
“No, signore, l’ho visto poche volte.”
“In che modo lo avete tenuto al corrente?”
“Con alcune note scritte di mio pugno.”
“Avete copia di queste note?”
“No, signore.”
“Chi gliele consegnava?”
“La signora presidentessa.”
“Come avevate fatto la sua conoscenza?”
“Tramite suor Orsola che era amica mia e sua parente.”
“Avete visto il signor Manouri dopo la fine del processo?”
“Una volta.”
“È poco. Non vi ha mai scritto?”
“No, signore.”
“Voi non gli avete mai scritto?”
“No, signore.”
“Vi metterà certamente al corrente di ciò che ha fatto per voi. Vi ordino di non incontrarlo in parlatorio; se vi scrive, sia direttamente che indirettamente, vi ordino di mandarmi la lettera senza aprirla. Senza aprirla, è chiaro?”
“Sì, signore. Vi obbedirò.”
Quella diffidenza di monsignor Hébert, sia che mi riguardasse, sia che riguardasse il mio benefattore, mi ferì.
Il signor Manouri venne a Longchamp quella sera stessa. Mantenni la parola data all’arcidiacono e mi rifiutai di parlargli. Il giorno dopo mi fece scrivere dal suo incaricato. Ricevetti la lettera, e senza aprirla la mandai a monsignor Hébert. Se ben ricordo, era di martedì. Aspettavo sempre con impazienza il risultato della promessa dell’arcidiacono e dei passi compiuti dal signor Manouri. Il mercoledì, il giovedì, il venerdì trascorsero senza che ci fossero novità. Come mi parvero lunghe quelle giornate! Tremavo all’idea che potesse essere sorta qualche difficoltà che avesse sconvolto tutti i piani. Non ritrovavo la mia libertà, ma cambiavo prigione, ed era già qualcosa. Un primo avvenimento felice fa germogliare in noi la speranza di un secondo: forse è questa l’origine del proverbio “ una fortuna non giunge senza un’altra”.
Conoscevo bene le compagne che lasciavo e non mi ci voleva molto a supporre che avrei pur sempre guadagnato qualcosa vivendo con recluse diverse. Comunque fossero non avrebbero potuto essere né più cattive, né più malevole. Il sabato mattina, verso le nove, ci fu grande agitazione in convento. Ci vuol ben poca cosa per mettere le monache in subbuglio. Andavano, venivano, parlavano a bassa voce; le porte dei dormitori si aprivano e si chiudevano. Come avete potuto constatare fin qui, è questo il segnale delle rivoluzioni monastiche. Ero sola nella mia cella; aspettavo, e il cuore mi batteva. Ascoltavo alla porta, guardavo dalla finestra, mi agitavo senza sapere che cosa facessi; trasalendo di gioia andavo dicendo a me stessa:
“Vengono e prendere me; fra poco non ci sarò più...” e infatti non mi sbagliavo.
Mi si presentarono due persone sconosciute: erano una monaca e la portinaia di Arpajon. In poche parole mi misero al corrente della ragione della loro visita. Presi in fretta e furia le poche cose che mi appartenevano; le gettai alla rinfusa nel grembiule della portinaia che ne fece dei pacchetti. Non chiesi nemmeno di vedere la superiora; suor Orsola non c’era più, non avevo nessuno da salutare.
Scendo; mi aprono la porta dopo aver ispezionato quello che portavo con me; salgo su una carrozza ed eccomi partita.
L’arcidiacono, i due giovani ecclesiastici, la signora presidentessa e il signor Manouri si erano riuniti dalla superiora di Arpajon dove furono avvertiti che avevo lasciato il convento. Via facendo, la monaca mi parlò del nuovo convento e ad ogni frase di quell’elogio che me ne veniva fatto, la portinaia aggiungeva a mo’ di ritornello: “È la pura verità.” La mia compagna si rallegrava di essere stata scelta per venire a prendermi e voleva diventare mia amica, perciò mi confidò alcuni segreti e mi dette qualche consiglio sul modo di comportarmi. Quei consigli naturalmente andavano bene per lei, ma non potevano servire a me. Non so se avete visto il convento di Arpajon. È una costruzione quadrata, di cui una facciata guarda sulla strada maestra e l’altra sulla campagna e i giardini. Ad ogni finestra della facciata che dava sulla strada, c’erano una, due, o tre monache. Bastò quella circostanza a dirmela più lunga di tutte le chiacchiere della monaca e della sua compagna sull’ordine che regnava nel convento. Evidentemente conoscevano la carrozza con la quale arrivavo, perché in un batter d’occhio tutte quelle teste velate scomparvero ed io giunsi alla porta della mia nuova prigione. La superiora mi venne incontro a braccia aperte, mi abbracciò, mi prese per mano e mi condusse nella sala della comunità dove alcune monache ci avevano già preceduto e dove altre accorsero.
Questa superiora si chiama Signora di ***. Non so resistere al desiderio di descriverla prima di proseguire. È piccola, tutta tonda e nondimeno vivace e svelta nei movimenti; la testa non le sta mai ferma sulle spalle; nel suo abbigliamento c’è sempre qualcosa di stonato; il viso è più bello che brutto; i suoi occhi, di cui il destro è più alto e più grande dell’altro, sono pieni di fuoco e svagati; quando cammina, manda le braccia avanti e indietro. Se vuol parlare? apre bocca prima di aver riordinato le idee e così balbetta un po’. Se è seduta? si agita sul sedile come se qualcosa la infastidisse. Dimentica ogni decoro, si toglie il soggolo per grattarsi la pelle, incrocia le gambe. Vi interroga, voi le rispondete, e lei non ascolta. Vi parla, e perde il filo del discorso; si ferma di botto, non sa più che cosa stava dicendo, va in collera e vi dà della bestia, della stupida, dell’imbecille, se non la rimettete sulla via. A volte è familiare fino a dare del tu, a volte imperiosa e altezzosa fino all’arroganza. I suoi momenti di dignità non durano a lungo ed è, a fasi alterne, compassionevole e severa. Il suo viso scomposto rivela l’incoerenza del suo animo e l’incostanza del suo carattere; perciò nel convento ordine e disordine si susseguivano in permanenza. C’erano giorni in cui tutto veniva mischiato, educande e novizie, novizie e professe; giorni in cui le une correvano nelle celle delle altre e insieme bevevano tè, caffè, cioccolata, liquori; giorni in cui si celebrava l’uffizio con una rapidità indecente. In mezzo a tutta quella confusione, di colpo il viso della superiora cambia, la campana suona, le monache si chiudono, si ritirano, il silenzio più profondo succede al rumore, alle grida, al tumulto. Si direbbe che all’improvviso tutto è morto. In questi casi, se una monaca vien meno al più piccolo dovere, la superiora la fa andare nella sua cella, la tratta con durezza, le ordina di spogliarsi e di darsi venti colpi di disciplina. La monaca obbedisce, si spoglia, prende la disciplina, si flagella, ma si è appena data qualche colpo che la superiora torna ad essere compassionevole, le strappa lo strumento di penitenza, si mette a piangere, dice che si sente molto infelice per la punizione che le deve infliggere, le bacia la fronte, gli occhi, la bocca, la carezza, la loda: “Ma guardate che pelle bianca e morbida! Che aria florida! e che bel collo! e che bei capelli!... Sei pazza, suor Augustina a vergognarti così! Sono donna, e sono la tua superiora! lascia cadere quella camicia! Oh, che bel seno! com’è sodo! E io dovrei sopportare che tutta questa bellezza fosse ferita dalle sferzate! che non sia mai...” La bacia ancora, l’aiuta a rialzarsi, la riveste lei stessa, le dice le cose più tenere, la dispensa dalle funzioni e la rimanda nella sua cella.
Si è sempre a disagio con donne di questo genere. Non si sa mai che cosa possa piacere o dispiacere loro, che cosa si deve evitare e che cosa si deve fare; non vi è nessuna regola: o si è servite in abbondanza, o si muore di fame; l’economia del convento ne è tutta scombussolata; le rimostranze sono accolte male o ignorate. Si è sempre o troppo lontane o troppo vicine a superiore con un carattere simile; non c’è né vera distanza, né un giusto mezzo; se ne godono i favori, o si è in disgrazia senza sapere perché.
Volete avere, in una cosa da nulla, un esempio generale della sua amministrazione? Due volte all’anno correva di cella in cella e faceva buttare dalle finestre tutte le bottiglie di liquori che vi trovava, e quattro giorni dopo era lei stessa che ne rimandava alla maggior parte delle monache. Ecco com’era colei alla quale avevo fatto voto solenne di obbedienza, dato che noi portiamo sempre i nostri voti da un convento all’altro.
Entrai con lei che mi guidava tenendomi allacciata per la vita. Fu servita una merenda di frutta, marzapane e confetture.
L’austero arcidiacono cominciò il mio elogio che interruppe dicendo: “Hanno avuto torto, hanno avuto torto, lo so...” L’austero arcidiacono volle continuare e la superiora lo interruppe dicendo: “Come hanno potuto allontanarla? È la modestia e la dolcezza in persona; dicono che è piena di qualità...” L’austero arcidiacono volle riprendere dalle ultime parole; di nuovo la superiora lo interruppe dicendomi sottovoce nell’orecchio: “Vi amo alla follia, e quando questi pedantoni se ne saranno andati, farò venire le nostre consorelle e voi canterete un’arietta, vero?” Mi venne una gran voglia di ridere. L’austero monsignor Hébert fu alquanto sconcertato, i suoi due giovani assistenti sorridevano del suo imbarazzo e del mio.
Intanto monsignor Hébert, ritrovando il suo carattere e le sue solite maniere le ordinò bruscamente di sedersi e le ingiunse di tacere. La superiora si sedette, ma non si sentiva a suo agio: mentre era seduta, si agitava, si grattava la testa, si aggiustava l’abito che non ne aveva affatto bisogno, sbadigliava. E intanto l’arcidiacono discorreva con molto buon senso del convento che avevo appena lasciato, di tutte le vicissitudini in cui ero incorsa, del convento nel quale entravo, degli obblighi contratti verso le persone che mi avevano servito. A questo punto guardai il signor Manouri che abbassò gli occhi. Allora la conversazione si fece generale; il penoso silenzio che era stato imposto alla superiora cessò. Mi avvicinai al signor Manouri e lo ringraziai per tutto quello che aveva fatto per me. Tremavo, balbettavo, non sapevo quale riconoscenza promettergli. Il mio turbamento, il mio imbarazzo, il mio intenerimento, giacché ero veramente commossa, lacrime e gioia mescolate insieme, tutto il mio modo di fare, parlarono con molta più eloquenza di quanto non avrei saputo fare io.
La sua risposta non fu meno sconnessa del mio discorsetto; era turbato quanto me. Non so quel che mi andava dicendo, ma capii che se avesse addolcito la mia sorte, sarebbe stato più che ricompensato e che si sarebbe ricordato di quello che aveva fatto con un piacere ancor più grande del mio, che gli dispiaceva molto che i suoi impegni che lo tenevano legato al Palazzo di Parigi non gli permettessero di fare visite frequenti al chiostro di Arpajon, ma che sperava di ottenere dal signor arcidiacono e dalla signora superiora il permesso di informarsi sulla mia salute e sulle mie condizioni.
L’arcidiacono non sentì, ma la superiora rispose:
“Finché vorrete, signore. Suor Susanna farà tutto quello che le piacerà; cercheremo di riparare qui tutti i patimenti che ha dovuto soffrire.”
Poi, a me, sottovoce:
“Figliola mia, hai proprio sofferto tanto? Ma come possono aver avuto il coraggio di maltrattarti, quelle creature di Longchamp? Ho conosciuto la tua superiora, siamo state educande insieme a Port-Royal. Era la bestia nera delle sue compagne. Avremo tutto il tempo di vederci, mi racconterai...”
Così dicendo mi afferrava una mano sulla quale dava dei colpetti con la sua. Anche i giovani ecclesiastici mi fecero i loro convenevoli. Era tardi; il signor Manouri si congedò da noi; l’arcidiacono e i suoi compagni si recarono dal signor ***..., signore di Arpajon, dal quale erano stati invitati, ed io rimasi sola con la superiora. Ma non fu per molto. Tutte le monache, tutte le novizie, tutte le educande accorsero alla rinfusa: in un attimo mi vidi circondata da un centinaio di persone. C’erano visi di ogni tipo e si intrecciavano frasi di ogni genere. Capii però che non erano scontente, né delle mie risposte, né della mia persona.
Dopo un certo tempo che durava quel chiacchierare importuno e dopo che fu soddisfatta la prima curiosità, l’assembramento si disperse. La superiora allontanò quelle che rimanevano e venne di persona a sistemarmi nella mia cella. Me ne fece gli onori a modo suo, mostrandomi l’inginocchiatoio e dicendomi:
“Ecco dove la mia amichetta pregherà Dio; voglio che le venga messo un cuscino su questo gradino, perché i suoi ginocchietti non si facciano male. Non c’è più acqua benedetta in questa acquasantiera; quella suor Dorotea dimentica sempre qualcosa. Provate questa poltrona, vedete un po’ se ci state comoda...”
E mentre parlava, mi fece sedere, mi fece appoggiare la testa sullo schienale, mi baciò la fronte. Poi andò alla finestra per assicurarsi che i vetri si alzassero e si abbassassero facilmente; poi andò al letto, di cui tirò e ritirò le cortine per vedere se chiudevano bene. Esaminò le coperte: “sono calde”, disse. Prese il traversino e sprimacciandolo e facendolo gonfiare, diceva: “questa cara testolina starà benissimo appoggiata qui... Queste lenzuola non sono fini, ma sono quelle della comunità... Questi materassi sono buoni.”
Dopo di che viene verso di me, mi abbraccia e mi lascia. Durante questa scena, io dicevo dentro di me: “Che creatura folle!” E mi aspettavo di dover affrontare giorni buoni e giorni cattivi.
Mi sistemai nella cella, poi assistetti all’uffizio della sera, alla cena e alla ricreazione che seguì. Alcun monache mi si avvicinarono, altre si allontanarono; le prime contavano sulla mia protezione nei confronti della superiora, le altre erano già allarmate per la predilezione che mi aveva dimostrato. Quei primi momenti trascorsero in elogi reciproci, in domande sul convento che avevo lasciato, in tentativi di conoscere il mio carattere, le mie inclinazioni, il mio gusto, la mia intelligenza. Vi sondano dappertutto: è un susseguirsi di piccoli tranelli che vi vengono tesi e dai quali si traggono le conclusioni più esatte. Per esempio, dicono una frase maldicente e poi vi guardano; cominciano una storia e aspettano che chiediate il seguito o che ve ne disinteressiate. Se usate un’espressione qualsiasi, la trovano deliziosa benché sappiano benissimo che non ha niente di speciale; di proposito vi lodano o vi biasimano. Cercano di penetrare nei vostri pensieri più segreti; vi interrogano sulle vostre letture, vi offrono libri sacri o profani, notano le vostre scelte. Vi invitano a commettere lievi infrazioni alla regola; vi fanno delle confidenze; vi buttan lì qualche frasetta sulle bizzarrie della superiora: tutto viene raccolto e ripetuto. Vi lasciano, vi riprendono; indagano sui vostri sentimenti, sui costumi, sulla pietà, sulla società, sulla religione, sulla vita monastica, su tutto questo. Da questi esperimenti reiterati deriva un epiteto che vi caratterizza e che viene unito come soprannome al nome che portate; fu così che io venni chiamata suor Susanna la riservata.
La prima sera ricevetti la visita della superiora che venne nel momento in cui mi stavo spogliando. Fu lei che mi tolse il velo e il soggolo e che mi pettinò per la notte; fu lei che mi spogliò. Mi disse cento paroline dolci, mi fece mille carezze che mi misero un po’ in imbarazzo senza che capissi perché, dato che non ci capivo nulla e neppure lei. E anche oggi che ci rifletto, che cosa avremmo potuto capirci? In ogni modo ne parlai al mio direttore spirituale il quale considerò quelle familiarità che a me sembravano e continuavano a sembrare innocenti, con molta serietà e mi proibì severamente di prestarmici ancora. La superiora mi baciò il collo, le spalle, le braccia lodò il mio bell’aspetto e la mia vita sottile, poi mi mise a letto; mi rimboccò le coperte da entrambi i lati, mi baciò gli occhi, tirò le cortine e se ne andò. Dimenticavo di dirvi che supponeva ch’io fossi stanca, e mi permise di restare a letto finché avessi voluto.
Profittai del suo permesso e credo che sia stata la sola notte buona che abbia passato in convento. E dal convento non sono quasi mai uscita. Il giorno dopo, verso le nove, sentii bussare delicatamente alla porta. Ero ancora a letto; risposi, entrarono. Era una monaca che mi disse, piuttosto di malumore, che era tardi e che la madre superiora chiedeva di me. Mi alzai, mi vestii in fretta e andai.
“Buon giorno, figliola,” mi disse; “avete passato una buona notte? Ecco qui il caffè che vi aspetta da un’ora; credo sia buono; sbrigatevi a berlo e poi parleremo...”
E mentre parlava, stendeva un tovagliolo sulla tavola, ne spiegava un altro su di me, versava il caffè, lo inzuccherava. Le altre monache facevano altrettanto, le une nelle celle delle altre. Mentre facevo colazione, la superiora mi intrattenne sulle sue compagne, me le descrisse a seconda della sua avversione o della sua simpatia, mi fece mille affermazioni di amicizia, mille domande sul convento che avevo lasciato, sui miei genitori, su tutte le cose sgradevoli che avevo dovuto subire; lodò, biasimò secondo il suo estro, non stette mai a sentire le mie risposte fino in fondo. Non la contraddissi mai; fu molto contenta di trovarmi ricca di spirito, giudiziosa e discreta. Nel frattempo venne una monaca, poi un’altra, poi una terza, poi una quarta, una quinta. Parlarono degli uccelli di una certa madre, delle piccole manie di una certa sorella, di tutte le imperfezioni ridicole delle assenti. Vi fu grande allegria. In un angolo della cella c’era una spinetta; distrattamente vi posai le dita. Arrivata di recente al convento e non conoscendo le monache sulle quali stavano scherzando, mi divertivo ben poco; e quand’anche fossi stata più al corrente, non per questo mi sarei divertita di più. Ci vuole troppo spirito per scherzare come si deve, e poi, chi non ha qualcosa di ridicolo? Mentre ridevano, io accennavo a qualche accordo; a poco a poco l’attenzione si rivolse verso di me. La superiora venne dalla mia parte e dandomi un colpetto sulle spalle, mi disse:
“Suvvia, suor Santa Susanna, divertici un po’; prima suona, poi dopo canterai.”
Feci ciò che mi diceva; eseguii alcuni pezzi che mi venivano spontaneamente alle dita; improvvisai qualche preludio e infine cantai alcuni versetti dei salmi di Mondonville.
“Davvero molto bene,” disse la superiora, “ma in chiesa abbiamo santità a sufficienza. Siamo sole; queste monache sono amiche mie e saranno anche amiche tue; cantaci qualcosa di più allegro.”
Alcune monache dissero:
“Ma forse non conosce altro che questo; è stanca del viaggio, bisogna risparmiarla; per una volta ha già suonato abbastanza.”
“No, no,” ribatté la superiora, “si accompagna che è una meraviglia, ha la voce più bella del mondo (effettivamente la mia voce non è brutta, benché sia più intonata, dolce e flessibile che forte e ampia). Non la lascerò libera finché non ci avrà cantato qualcos’altro.”
Le parole delle monache mi avevano un po’ offesa; risposi alla superiora che le monache non si divertivano più.
“Ma io mi diverto ancora.”
Mi aspettavo quella risposta. Perciò cantai una canzone alquanto delicata e tutte applaudirono, mi abbracciarono, mi accarezzarono, me ne chiesero un’altra: moine ipocrite, dettate dalla risposta della superiora. Fra di loro non ve n’era una che non mi avrebbe rubato la voce e spezzato le dita, se avesse potuto. Quelle che forse non avevano mai ascoltato musica in vita loro, si azzardarono a pronunciare sul mio conto giudizi ridicoli non meno che spiacevoli, che però non ebbero presa sulla superiora.
“Tacete,” ella disse, “suor Susanna suona e canta come un angelo e voglio che venga qui tutti i giorni: una volta sapevo suonare un po’ il clavicembalo e voglio rimettermici con lei.”
“Ah, signora,” le dissi, “se si è saputo una volta, non si è dimenticato tutto...”
“Molto volentieri, lasciami il posto.”
Dopo qualche preludio, suonò cose pazze, bizzarre, scucite come le sue idee, ma attraverso tutti i difetti della sua esecuzione, mi resi conto che aveva la mano infinitamente più leggera della mia. Glielo dissi perché mi piace lodare, e raramente ho perso l’occasione di farlo, quando potevo farlo con sincerità. È una cosa così dolce! Le monache si eclissarono una dopo l’altra ed io rimasi pressoché sola con la superiora a parlare di musica. Io stavo in piedi; lei era seduta e mi afferrava le mani e mi diceva stringendole:
“Non soltanto suona bene, ma ha anche le più belle dita del mondo; guardate qui, suor Teresa...”
Suor Teresa abbassava gli occhi, arrossiva, e balbettava; che io avessi o non avessi delle belle dita, che la superiora avesse torto o ragione di osservarlo, che importanza poteva avere per quella monaca? La superiora mi teneva allacciata per la vita e trovava che avevo il più bel vitino dei mondo. Mi aveva attirata a sé; mi aveva fatto sedere sulle sue ginocchia e mi sollevava la testa con le mani e mi esortava a guardarla. Lodava i miei occhi, la mia bocca, le mie guance, il mio incarnato. Io non rispondevo niente, tenevo gli occhi bassi e mi lasciavo andare a tutte quelle carezze come un’idiota.
Suor Teresa era assorta, inquieta, andava a destra e a sinistra, toccava tutto senza aver bisogno di niente, non sapeva che fare della sua persona, guardava dalla finestra, credeva di aver sentito bussare alla porta. La superiora le disse:
“Suor Santa Teresa, puoi andartene se ti annoi.”
“Non mi annoio, signora.”
“Il fatto è che ho mille cose da chiedere a questa figliola.”
“Lo credo.”
“Voglio sapere tutta la sua storia. Come potrò riparare tutto il male che le hanno fatto, se lo ignoro? Voglio che me lo racconti senza omettere niente, sono sicura che ne avrò il cuore straziato e che piangerò, ma non importa. Suor Santa Susanna, quand’è che potrò sapere tutto?”
“Quando me l’ordinerete, signora.”
“Te lo chiederei fra poco, se ne avessimo il tempo. Che ore sono?”
Suor Teresa rispose:
“Sono le cinque, signora, e i vespri stanno per suonare.”
“Può sempre cominciare.”
“Ma signora, mi avevate promesso un momento di consolazione prima dei vespri. Ho dei pensieri che mi turbano; vorrei proprio aprire il cuore alla mamma. Se vado all’uffizio senza averlo fatto, non potrò pregare, sarò distratta.”
“No, no!” disse la superiora, “sei pazza con quelle tue idee. Scommetto che so già di che si tratta; ne parleremo domani.”
“Ah, cara madre!” disse suor Teresa gettandosi ai piedi della superiora e sciogliendosi in lacrime, “fate che sia fra breve.”
“Signora,” dissi alla superiora alzandomi dalle sue ginocchia dove ero rimasta seduta, “concedete alla mia consorella ciò che ella vi chiede; non la fate ancora soffrire così; avrò sempre il tempo di soddisfare l’interesse che volete testimoniarmi, e quando avrete ascoltato la mia sorella Teresa, non soffrirà più.”
Feci il gesto di avviarmi verso la porta per uscire; la superiora mi tratteneva con una mano; suor Teresa, in ginocchio, si era impadronita dell’altra, la baciava e piangeva: la superiora le diceva:
“In verità, suor Teresa, sei molto importuna con le tue inquietudini; te l’ho già detto, è una cosa che non mi piace, che m’infastidisce; non voglio essere infastidita.”
“Lo so, ma non sono padrona dei miei sentimenti; vorrei e non ci riesco...”
Nel frattempo mi ero ritirata e avevo lasciato la giovane suora con la superiora. In chiesa non potei fare a meno di guardarla: c’erano ancora in lei abbattimento e tristezza; i nostri occhi si incontrarono diverse volte e mi parve che le fosse difficile sostenere il mio sguardo. Quanto alla superiora, si era assopita nel suo stallo.
L’uffizio fu sbrigato con tale velocità. Da quel che potei giudicare, il coro non era il luogo del convento dove si stesse più volentieri. Le monache ne uscirono veloci e cinguettanti come uno stormo d’uccelli che prenda il volo da una gabbia e si dispersero le une nelle celle delle altre, correndo, ridendo, chiacchierando. La superiora si chiuse di nuovo nella sua cella e suor Teresa si fermò sulla soglia della sua, spiandomi come se fosse stata curiosa di sapere che cosa avrei fatto. Io rientrai nella mia cella e la porta di suor Teresa si chiuse solamente dopo un certo tempo, e si chiuse senza far rumore. Mi passò per la testa che quella fanciulla potesse essere gelosa di me e temesse ch’io le rubassi il posto che occupava nelle buone grazie e nell’intimità della superiora. La osservai per diversi giorni di seguito e quando i miei sospetti furono sufficientemente confermati dai suoi scatti di collera, dai suoi allarmi puerili, dalla sua insistenza nel pedinarmi, nell’interrompere i nostri colloqui, nel denigrare le mie qualità, nel mettere in risalto i miei difetti, e ancora più dal suo pallore, dal suo dolore, dai suoi pianti, dal suo stato di salute fisica e persino mentale, l’andai a trovare e le dissi:
“Che cosa avete, mia cara amica?”
Non rispose; la mia visita la sorprese e la imbarazzò; non sapeva che dire o che fare.
“Non siete giusta con me; ditemi la verità: voi temete ch’io profitti della simpatia che la nostra madre sente per me, che vi allontani dal suo cuore. State tranquilla, non è nel mio carattere. Se mai fossi abbastanza fortunata da poter influenzare in qualche modo il suo animo...”
“Voi avrete tutto quello che vorrete; lei vi ama; lei oggi fa per voi esattamente quello che ha fatto per me all’inizio.”
“Ebbene, in tal caso siate certa ch’io non mi servirò della fiducia che vorrà concedermi se non per rendervi più cara a lei.”
“E questo dipenderà da voi?”
“Perché non dovrebbe dipendere da me?”
Invece di rispondermi, mi buttò le braccia al collo e mi disse sospirando:
“Non è colpa vostra, lo so bene, me lo dico ad ogni istante; ma promettetemi...”
“Che cosa volete che vi prometta?”
“Che...”
“Dite, coraggio! Farò tutto quello che dipenderà da me.”
Esitò, si copri gli occhi con le mani e con voce così bassa che appena la sentii: “Che la vediate meno che potrete.”
La richiesta mi parve così strana che non potei fare a meno di risponderle:
“Che importa a voi ch’io veda di frequente o di rado la nostra superiora? A me non dispiace affatto che voi la vediate di continuo. A voi non deve dispiacere ch’io faccia altrettanto; non vi basta la mia assicurazione ch’io non vi faccia torto presso di lei, né a voi, né a nessun’altra?”
Suor Teresa non mi rispose che con queste parole che pronunciò in maniera dolorosa staccandosi da me e buttandosi sul letto:
“Sono perduta!”
“Perduta! E perché? Bisogna proprio che mi crediate la creatura più perfida che ci sia al mondo!”
Eravamo a questo punto quando entrò la superiora. Era passata nella mia cella e non avendomi trovata, aveva girato inutilmente per tutto il convento. Non le era venuto in mente che potessi essere da suor Santa Teresa. Dopo che le venne riferito dalle monache che aveva mandato alla mia ricerca, accorse. Lo sguardo e il volto rivelavano un certo turbamento, ma tutta la sua persona era così di rado composta!
Seduta sul suo letto, suor Santa Teresa taceva; io ero in piedi. Dissi alla superiora:
“Mia cara madre, vi chiedo perdono di essere venuta qui senza il vostro permesso.”
“È vero,” mi rispose, “che sarebbe stato meglio chiedermelo.”
“Ma questa cara sorella mi ha fatto compassione; ho visto che soffriva.”
“E perché soffriva?”
“Ve lo debbo proprio dire? E dopo tutto perché non ve lo dovrei dire? È per una delicatezza che fa molto onore alla sua anima e che manifesta in maniera spiccata il suo attaccamento per voi. La bontà che mi avete testimoniato ha messo in allarme la sua tenerezza: ella teme che il vostro cuore finisca per preferirmi a lei. Questo sentimento di gelosia, così onesto d’altro canto, così naturale e così lusinghiero per voi, mia cara madre, da quel che mi è sembrato di capire era divenuto crudele per la mia sorella, ed io la rassicuravo.”
Dopo avermi ascoltato, la superiora assunse un’aria severa e imponente, e disse a suor Santa Teresa:
“Suor Teresa, io vi ho amata e vi amo ancora; non ho ragione di lamentarmi di voi e voi non avrete da lamentarvi di me, ma non posso tollerare queste pretese di esclusività. Liberatevene, se temete di spegnere quel che mi rimane d’affetto per voi, e se vi ricordate la sorte di suor Agata...”
Poi, rivolgendosi a me, soggiunse:
“Sto parlando di quella bruna alta che nel coro sta di fronte a me.”
(Io ero così schiva, ero da così poco tempo in quel convento, ero così nuova, che non sapevo ancora tutti i nomi delle mie compagne.)
La superiora proseguì:
“La amavo, quando suor Teresa entrò in convento ed io cominciai a prediligerla. Suor Agata ebbe gli stessi turbamenti, commise le stesse pazzie. Io l’avvertii, e lei non si corresse. Allora fui costretta a ricorrere a mezzi severi che sono durati troppo a lungo e che sono del tutto contrari al mio carattere; tutte vi diranno infatti ch’io sono buona e non punisco se non a malincuore.”
Poi, rivolgendosi a suor Santa Teresa, aggiunse:
“Figliola mia, non voglio essere infastidita, ve l’ho già detto; voi mi conoscete, non mi fate agire facendo violenza alla mia natura...”
Poi, appoggiandomi una mano sulla spalla, mi disse:
“Venite, suor Santa Susanna, accompagnatemi.”
Uscimmo. Suor Santa Teresa fece il gesto di seguirci, ma la superiora, volgendo negligentemente lo sguardo sopra la mia spalla, le disse con tono autoritario:
“Tornate nella vostra cella e non uscitene senza il mio permesso.”
Suor Santa Teresa ubbidì, richiuse la porta con violenza e si lasciò sfuggire alcune frasi che fecero fremere la superiora senza ch’io capissi perché, giacché non avevano alcun senso. Vidi la sua collera e le dissi:
“Cara madre, se avete qualche bontà per me, perdonate la mia sorella Teresa; ha perso la testa, non sa quello che dice; non sa quello che fa.”
“Volete ch’io la perdoni? La perdonerò; ma voi, che mi darete?”
“Ah, cara madre, sarei così fortunata, io, da avere qualcosa che vi piacesse e che vi placasse?”
La superiora abbassò gli occhi, arrossì, e sospirò; era proprio come un innamorato. Poi, abbandonandosi languidamente su di me come se si sentisse mancare, mi disse:
“Avvicinate la vostra fronte, ch’io la baci...”
Mi curvai ed ella mi baciò la fronte. A partire da quel giorno, non appena una monaca aveva commesso qualche colpa, io intercedevo, ed ero sicura di ottenere per lei la sua grazia in cambio di qualche favore innocente; si trattava sempre di un bacio sulla fronte, o sul collo, o sugli occhi, o sulle guance, o sulla bocca, o sulle mani, o sul petto, o sulle braccia, ma più spesso sulla bocca. Ella trovava che avevo un alito puro, i denti bianchi e le labbra fresche e vermiglie.
A dire il vero sarei davvero bella, se meritassi la minima parte degli elogi che mi faceva: a sentir lei la mia fronte era bianca, liscia e di una forma incantevole; i miei occhi erano brillanti; le mie guance vermiglie e dolci; le mie mani piccole e paffutelle; il mio petto era sodo come la pietra e di una forma perfetta; quanto alle mie braccia, non ve n’erano di meglio tornite e di più rotonde; nessuna delle suore, poi, aveva un collo fatto meglio del mio, né di una bellezza più squisita e più rara; e come potrei ricordare tutte le altre cose che mi diceva! C’era, nelle lodi che mi faceva, qualcosa di vero; a molte facevo la tara, ma non a tutte. Qualche volta, guardandomi dalla testa ai piedi con un’aria di compiacimento che non avevo mai visto a nessun’altra donna, mi diceva:
“È la più grande fortuna del mondo che Dio l’abbia chiamata in convento; con quel viso lì, nel mondo avrebbe fatto dannare tutti gli uomini che avesse incontrato, e si sarebbe dannata con loro. Dio fa bene tutto quello che fa.”
Intanto ci avvicinavamo alla sua cella; io mi accingevo a lasciarla, ma lei mi prese per mano e mi disse:
“È troppo tardi per cominciare la vostra storia di Santa Maria e di Longchamp, ma entrate lo stesso, mi darete una lezioncina di clavicembalo.”
La seguii. Ebbe presto fatto, vivace com’era, ad aprire il clavicembalo, a preparare uno spartito, ad avvicinare una sedia. Mi sedetti. Pensò che potessi aver freddo; prese da una sedia un cuscino che posò davanti a me, si chinò, mi prese entrambi i piedi che posò sopra il cuscino; poi si mise dietro la sedia e si appoggiò allo schienale. Dapprima accennai a qualche accordo; poi suonai qualche pezzo di Couperin, di Rameau, di Scarlatti; lei intanto aveva sollevato un lembo della bavetta che mi copriva il collo, la sua mano si era posata sulla mia spalla nuda e la punta delle dita sul mio petto. Sospirava, sembrava oppressa, respirava affannosamente; la mano che teneva sulla mia spalla, in un primo momento la premeva con forza, poi non la premeva più per niente, come se fosse stata senza forza e senza vita, e allora la sua testa ricadeva sulla mia. Quella pazza era, a onor del vero, di una sensibilità incredibile e aveva un gusto spiccato per la musica; non ho mai conosciuto nessuno su cui la musica producesse effetti tanto singolari.
Ci divertivamo così, in maniera semplice quanto dolce, allorché all’improvviso la porta si spalancò con violenza; ne ebbi paura e così pure la superiora. Era quella stravagante di suor Santa Teresa, con gli abiti in disordine e gli occhi torbidi. Ci scrutava l’una e l’altra con l’attenzione più bizzarra; le tremavano le labbra, non poteva parlare. Infine riuscì a tornare in sé e si gettò ai piedi della superiora; io unii la mia preghiera alla sua e ottenni ancora una volta il suo perdono. La superiora le assicurò nel modo più categorico che sarebbe stata l’ultima volta, almeno per colpe di quel genere, e suor Teresa ed io uscimmo insieme.
Tornando alle nostre celle le dissi:
“State attenta, cara sorella, voi indisporrete la nostra madre. Io non vi abbandonerò, ma voi finirete col togliermi ogni credito presso di lei e io sarò disperata di non poter più niente né per voi, né per nessun’altra. Ma quali idee avete in testa?”
Nessuna risposta.
“Che cosa temete da parte mia?”
Nessuna risposta.
“La nostra madre non può forse amarci in egual modo tutte e due?”
“No, no,” rispose lei con violenza, “è impossibile; presto io le ripugnerò e ne morrò di dolore. Ah, ma perché siete venuta qui! Non vi sarete felice a lungo, ne sono sicura. E io, io sarò infelice per sempre.”
“È una gran disgrazia, lo so,” le risposi, “aver perduto la benevolenza della propria superiora, ma io ne conosco una più grande, ed è d’averla meritata; non avete nulla da rimproveravi?”
“Ah, così piacesse a Dio!”
“Se in cuor vostro vi accusate di qualche colpa, dovete ripararla; e il mezzo più sicuro è di sopportare pazientemente il castigo.”
“Non saprei, non saprei proprio, e in ogni caso, spetta a lei punirmi?”
“A lei, suor Teresa, a lei! Si parla forse così di una superiora? Non è una cosa buona, questa; voi state trascendendo. Sono sicura che questa vostra colpa e più grave di tutte quelle che vi rimproverate.”
“Ah, così piacesse a Dio,” ripeté, “piacesse a Dio!”
Ci separammo, lei per andare nella sua cella a desolarsi, io per andare nella mia a riflettere sulle stranezze delle teste femminili.
Questo è dunque l’effetto della clausura. L’uomo è nato per vivere in società. Separatelo, isolatelo, le sue idee si dissoceranno, il suo carattere cambierà radicalmente, mille affetti ridicoli gli nasceranno nel cuore, pensieri stravaganti gli germoglieranno nella mente come rovi in una terra selvatica. Mettete un uomo in una foresta, diventerà feroce; in un chiostro, dove l’idea di necessità si associa a quella di schiavitù, è ancor peggio; si esce da una foresta, non si esce più da un chiostro; si è liberi nella foresta, si è schiavi in un chiostro. Forse occorre una forza d’animo ancor più grande per resistere alla solitudine che alla miseria; la miseria avvilisce, la clausura deprava. È forse meglio vivere nell’abiezione che nella follia. Non sarei in grado di decidere; ma bisogna evitare l’una e l’altra.
Vedevo crescere di giorno in giorno la tenerezza che la superiora aveva concepito per me. Ero di continuo nella sua cella, oppure lei era nella mia; per la minima indisposizione mi ordinava l’infermeria, mi dispensava dalle funzioni religiose, mi mandava a letto presto o mi proibiva l’orazione del mattino. Nel coro, al refettorio, a ricreazione, trovava il modo di testimoniare la sua amicizia. Se nel coro ci s’imbatteva in un versetto che esprimeva un sentimento affettuoso e tenero, lo cantava dedicandolo a me, oppure mi guardava se a cantarlo era un’altra. Al refettorio, mi mandava sempre ad assaggiare i cibi squisiti che le venivano serviti. Durante la ricreazione, mi allacciava la vita e mi diceva le cose più dolci e amabili. Non riceveva regalo che non dividesse con me: cioccolata, zucchero, caffè, liquori, tabacco, biancheria, fazzoletti, qualsiasi cosa. Aveva spogliato la sua cella di stampe, utensili, mobili e di un’infinità di cose piacevoli e comode per adornare la mia; non potevo allontanarmi un momento senza trovarla, al mio ritorno, arricchita di qualche regalo. Andavo a ringraziarla nella sua cella ed ella provava una gioia indescrivibile; mi abbracciava, mi accarezzava, mi prendeva sulle ginocchia, mi metteva al corrente delle cose più segrete del convento, e si riprometteva, se io l’avessi amata, una vita mille volte più felice di quella che avrebbe trascorso nel mondo. Dopo di che si interrompeva, mi guardava con occhi inteneriti e mi diceva:
“Mi amate, suor Susanna?”
“E come potrei non amarvi? Dovrei avere l’animo davvero ingrato.”
“Questo è vero.”
“Avete tanta bontà per me...”
“Dite, piuttosto, attrazione per voi.”
Pronunciando queste parole, abbassava gli occhi, la mano con cui mi teneva abbracciata mi stringeva più forte, quella che mi aveva posato sul ginocchio, accentuava la sua pressione, mi attirava su di sé, il mio viso si trovava sopra il suo, lei sospirava, si rovesciava sullo schienale della sedia, tremava, si sarebbe detto che avesse da confidarmi qualcosa e non osasse; versava lacrime, e poi mi diceva:
“Ah, suor Susanna, voi non mi amate!”
“Io non vi amo, cara madre?”
“No.”
“Ditemi allora che cosa devo fare per provarvelo.”
“Dovreste indovinare da sola.”
“Cerco, ma non indovino niente.”
Intanto si era tolta la bavetta e aveva posato la mia mano sul suo petto. Ella taceva, e anch’io tacevo; sembrava che assaporasse il più grande piacere. Mi esortava a baciarle la fronte, le guance, gli occhi, la bocca, ed io obbedivo: non credo che in questo ci fosse niente di male. Intanto il suo piacere aumentava e giacché io non chiedevo di meglio che accrescere la sua felicità in un modo così innocente, le baciavo ancora la fronte, le guance, gli occhi e la bocca.
La mano che aveva posato sul mio ginocchio andava su e giù per i miei abiti, dalla punta dei piedi fino alla cintola, ora premendo in un punto, ora in un altro; balbettando mi esortava con voce alterata e bassa, a raddoppiare le mie carezze. Io le raddoppiavo. Giunse infine un momento, non so se di piacere o di dolore, in cui divenne pallida come una morta; gli occhi le si chiusero, tutto il suo corpo si irrigidì con violenza, le sue labbra umide come di una schiuma leggera, prima si strinsero, poi la bocca le si dischiuse e mi parve che morisse esalando un profondo sospiro. Mi alzai bruscamente, credetti che si sentisse male, volevo uscire, chiamare aiuto. Aprì debolmente gli occhi, e mi disse con voce spenta:
“Innocente, non è niente. Che volete fare? Fermatevi...”
La guardai sgranando gli occhi stupefatti, incerta se restare o uscire. Aprì di nuovo gli occhi; non poteva più parlare per niente; mi fece cenno di avvicinarmi e di tornare a sedermi sulle sue ginocchia. Non so che cosa stesse succedendo dentro di me; temevo, tremavo, il cuore mi palpitava forte, facevo fatica a respirare, mi sentivo turbata, oppressa, agitata, avevo paura, mi sembrava che le forze mi abbandonassero e che stessi per svenire; ciò nonostante non potrei dire che provassi dolore. Mi avvicinai a lei; mi fece di nuovo cenno con la mano di sedermi sulle sue ginocchia; mi sedetti. Lei era come morta, ed io come se stessi per morire. Entrambe rimanemmo alquanto a lungo in quello strano stato; se fosse sopravvenuta qualche monaca, in verità si sarebbe assai spaventata; sembrava che ci fossimo sentite male o che ci fossimo addormentate. Nel frattempo mi parve che quella buona superiora, poiché è impossibile essere così sensibili e non essere buone, tornasse in sé; era sempre riversa sulla sedia con gli occhi sempre chiusi; ma il suo viso si era rianimato e aveva ripreso i più bei colori; mi prendeva una mano, la baciava, e io le dicevo:
“Ah, mia cara madre, mi avete fatto davvero paura...”
Sorrise dolcemente senza aprire gli occhi.
“Ma non avete sofferto?”
“No.”
“Ho creduto di sì.”
“Che innocente! Ah, che cara innocente! Come mi piace!”
Nel dire così, si sollevò, si rimise a sedere, mi prese tra le braccia e mi baciò sulle guance con molta foga, poi mi disse:
“Quanti anni avete?”
“Non ho ancora diciannove anni.”
“È inconcepibile!”
“Cara madre, non c’è niente di più vero.”
“Voglio conoscere la vostra vita; me la racconterete?”
“Sì, cara madre.”
“Tutta?”
“Tutta.”
“Ma potrebbe entrare qualcuno; andiamoci a mettere al clavicembalo; mi farete lezione.”
Andammo al clavicembalo, ma non so come accadde, le mani mi tremavano, lo spartito non mi lasciava intravedere che un ammasso confuso di note; non fui capace di suonare. Glielo dissi, e lei si mise a ridere. Prese il mio posto, ma fu anche peggio; poteva appena sollevare le braccia.
“Figliola mia,” mi disse, “vedo che tu non sei in condizioni di darmi lezioni, né io di imparare; sono un po’ stanca; bisogna che mi riposi. Addio. Domani, senza più indugiare, voglio sapere tutto quello che è accaduto in quella vostra cara piccola anima. Addio.”
Le altre volte, quando uscivo, mi accompagnava fino alla porta, mi seguiva con gli occhi lungo tutto il corridoio fino alla mia; mi buttava un bacio con la mano e rientrava nella sua cella solo quando ero rientrata nella mia. Quella volta, riuscì appena ad alzarsi; tutto quello che poté fare fu di raggiungere la poltrona che era accanto al suo letto; si sedette, reclinò la testa sul guanciale, mi buttò il bacio con le mani, mentre gli occhi le si chiudevano, e io me ne andai.
La mia cella era quasi di fronte alla cella di suor Santa Teresa. La porta era aperta. Suor Santa Teresa mi aspettava.
Mi fermò e mi disse:
“Ah, suor Santa Susanna, venite dalla cella della nostra madre?”
“Sì,” le risposi.
“Vi siete rimasta a lungo.”
“Tutto il tempo che lei ha voluto.”
“Non è quello che mi avevate promesso. Osereste dirmi che cosa ci avete fatto?”
Benché la mia coscienza non avesse nulla da rimproverarmi, vi confesserò, signor marchese, che quella domanda mi turbò. Lei se ne accorse, insisté, ed io risposi:
“Forse cara sorella, voi non mi credereste; ma forse crederete alla nostra cara madre, e io la pregherò di mettervi al corrente.”
“Mia cara suor Santa Susanna,” mi disse vivamente, “guardatevene bene. Voi non volete la mia infelicità: non me lo perdonerebbe mai. Voi non la conoscete: è capace di passare dalla più grande sensibilità alla ferocia; non so che cosa ne farebbe di me. Promettetemi di non dirle niente.”
“Ci tenete proprio?”
“Ve lo chiedo in ginocchio. Sono disperata; vedo bene che dovrò decidermi, e mi deciderò. Promettetemi di non dirle niente.”
La feci rialzare, le detti la mia parola. Ella ci fece assegnamento ed ebbe ragione. Poi ci chiudemmo, lei nella sua cella, io nella mia.
Tornata che fui nella mia cella, mi resi conto di essere nelle nuvole. Volli pregare, e non vi riuscii; cominciai un lavoro e lo lasciai per un altro che lasciai a sua volta per un altro ancora. Le mani mi si fermavano da sole e mi sentivo come stupidita. Mai avevo provato qualcosa di simile; i miei occhi si chiusero da soli e feci un sonnellino, benché non dorma mai durante il giorno. Quando mi fui svegliata, mi interrogai su quello che era accaduto tra me e la superiora; feci un esame di coscienza, poi, esaminandomi ancora, credetti di intravedere... ma erano idee così vaghe, così folli, così balorde, che le respinsi lontano da me. Il risultato delle mie riflessioni fu che forse si trattava di una malattia della quale ella soffriva; poi mi venne anche un’altra idea: che forse quella malattia fosse contagiosa, che suor Teresa l’avesse contratta, e che l’avrei contratta anch’io.
L’indomani, dopo l’uffizio del mattino, la nostra superiora mi disse: “Suor Santa Susanna, oggi spero proprio di sapere tutto quello che vi è successo; venite da me.”
Andai. Mi fece sedere nella sua poltrona accanto al letto ed ella si mise su una sedia un po’ più bassa. In tal modo la dominavo, un po’ perché sono più alta e un po’ perché ero seduta in posizione più elevata. Con un gomito stava appoggiata al letto, ed era così vicina a me che le mie ginocchia s’intrecciavano con le sue. Dopo un breve momento di silenzio, le dissi:
“Benché sia molto giovane, ho sofferto non poco. Saranno presto vent’anni che sono al mondo, e vent’anni che soffro. Non so se riuscirò a dirvi tutto, e se voi avrete il coraggio di stare a sentire. Sofferenze in casa dei miei genitori, sofferenze nel convento di Santa Maria, sofferenze nel convento di Longchamp, sofferenze dappertutto. Cara madre, da che parte volete che cominci?”
“Dalle prime.”
“Cara madre,” le dissi, “sarà molto lungo e molto triste, e non vorrei addolorarvi per troppo tempo.”
“Non temere, mi piace piangere: per un’anima tenera, versare lacrime è una condizione deliziosa. Anche a te deve piacer piangere; tu asciugherai le mie lacrime, io asciugherò le tue, e forse saremo felici in mezzo al racconto dei tuoi patimenti; chi lo sa fin dove può condurci l’intenerimento...”
Nel pronunciare queste ultime parole, mi guardò dal basso in alto con occhi già umidi, mi prese le mani, mi si avvicinò ancor di più in modo che lei mi toccava, ed io la toccavo.
“Racconta, figliola mia,” mi disse, “io sto aspettando e mi sento nella disposizione d’animo più propizia ad intenerirmi; non credo di aver mai avuto in vita mia un giorno più disposto alla comprensione e all’affetto...”
Cominciai dunque a raccontare la mia storia all’incirca come l’ho scritta a voi. Non sono in grado di dirvi l’effetto che produsse su di lei, i sospiri che emise, le lacrime che versò, le manifestazioni di sdegno contro i miei crudeli genitori, contro le orribili monache di Santa Maria, contro quelle di Longchamp; mi dorrebbe assai se fossero state colpite dalla minima parte del male che augurava loro: io non vorrei aver strappato nemmeno un capello dalla testa del mio più crudele nemico. Ogni tanto m’interrompeva, si alzava, andava su e giù per la cella, poi si sedeva di nuovo al suo posto; altre volte alzava gli occhi e le mani al cielo, e poi si nascondeva con la testa fra le mie ginocchia. Quando le parlavo della mia scena nella segreta, di quella del mio esorcismo, della mia onorevole ammenda, si mise quasi a gridare. Quando giunsi alla fine del mio racconto, tacqui, ed ella rimase per un certo tempo con il corpo piegato sul letto, il viso nascosto nella coperta e le braccia tese sopra la testa; e io intanto le dicevo:
“Cara madre, vi chiedo perdono per tutto il dolore che vi ho dato; vi avevo avvertito, siete stata voi a volerlo...”
E lei non mi rispondeva che con queste parole:
“Che perfida creatura! Che orribile creatura! Solo nei conventi l’umanità può arrivare a questi estremi. Quando l’odio si aggiunge al malumore abituale, non si sa più dove andranno a finire le cose. Per fortuna io sono dolce, io amo tutte le mie monache; tutte, chi più e chi meno, hanno preso qualcosa del mio carattere, e si amano tutte fra loro. Ma come ha potuto resistere una salute così delicata a tanti patimenti? Come hanno fatto tutte queste esili membra a non spezzarsi? Come ha potuto non lasciarsi distruggere questo fragile organismo? E come mai lo splendore di questi occhi non si è spento tra le lacrime? Ah, quale crudeltà! Stringere queste braccia con delle corde!...”
E mi prendeva le braccia e le baciava.
“Annegare nelle lacrime questi occhi!...” E li baciava.
“Strappare gemiti e lamenti da questa bocca!...” E la baciava.
“Condannare questo visino delizioso e sereno a velarsi continuamente delle nuvole della tristezza! ...” E lo baciava.
“Fare appassire le rose di queste guance! ...” E le carezzava con la mano, e le baciava.
“Disabbellire questa testa, strapparle i capelli, gravare di affanni questa fronte!...” E mi baciava la testa, la fronte, i capelli.
“Osare cingere di una corda questo collo, ferire queste spalle con delle punte aguzze...” E scostava la bavetta e il velo, sbottonava il mio abito in alto. I capelli mi ricadevano sparsi sul collo, sulle spalle coperte e sul petto seminudo. Dal tremito che la coglieva, dai suoi discorsi confusi, dallo smarrimento dei suoi occhi e delle sue mani, dal ginocchio che premeva tra i miei, dall’ardore con il quale mi stringeva e dalla violenza con la quale le sue braccia mi allacciavano, mi accorsi allora che il suo male non avrebbe tardato a riprenderla. Non so quel che stesse accadendo in me, ma mi sentivo colta da uno spavento, da un tremito, da un senso di mancamento che confermavano il mio sospetto che quel suo male fosse contagioso.
Le dissi:
“Cara madre, guardate in che disordine mi avete messa; se qualcuno venisse!”
“Rimani, rimani,” mi disse con voce affannosa, “non verrà nessuno...”
Io però facevo degli sforzi per alzarmi e strapparmi a lei, e intanto le dicevo:
“Cara madre, state attenta, ecco il vostro male che vi riprende. Permettete che me ne vada...”
Volevo andarmene; lo volevo, questo è certo, ma non potevo; avevo perduto ogni forza, le ginocchia mi si piegavano. Lei era seduta, io in piedi. Lei mi attirava a sé, io avevo paura di caderle addosso e di farle male. Mi sedetti sull’orlo del letto, e le dissi:
“Cara madre, non so che cos’ho, mi sento male.”
“Anch’io,” mi disse, “ma riposati un momento, ora passa, non è niente.”
Infatti la superiora ritrovò la calma: ed io pure. Eravamo tutte e due abbattute. Io tenevo la testa reclina sul guanciale, lei stava con la testa posata su un mio ginocchio, la fronte su una mia mano. Restammo per un certo tempo in quella posizione. Non so che cosa pensasse lei; quanto a me, non pensavo a niente; non potevo, ero in preda a una debolezza che mi prendeva tutta quanta. Stavamo in silenzio. La superiora lo interruppe per prima; mi disse:
“Susanna, mi è parso, da quel che mi avete detto della vostra superiora, che vi fosse molto cara.”
“Molto.”
“Lei non vi amava più di me, ma era più amata da voi Non rispondete?”
“Ero infelice, e lei addolciva le mie pene.”
“Ma da che cosa nasce questa vostra ripugnanza per la vita religiosa? Voi non mi avete detto tutto, Susanna.”
“Perdonatemi, signora.”
“Come! Non è possibile, incantevole come siete, giacché lo siete, figliola mia, lo siete molto, non immaginate nemmeno quanto lo siete, non e possibile che nessuno ve l’abbia detto.”
“Me l’hanno detto.”
“E colui che ve lo diceva, non vi dispiaceva?”
“No.”
“Vi siete sentita attratta da lui?”
“Per niente.”
“Come! Il vostro cuore non ha mai sentito niente?”
“Niente.”
“Come! Non è stata una passione segreta, o non approvata dai vostri genitori, a far nascere in voi quest’avversione per il convento? Confidatevi pure con me; sono indulgente io!”
“Cara madre, non ho niente da confidarvi a questo proposito.”
“Ancora una volta, da dove nasce allora la vostra ripugnanza per la vita religiosa?”
“Dalla vita religiosa stessa. Odio i doveri, le occupazioni, il ritiro, le costrizioni che impone; mi sembra di essere chiamata a qualcosa di diverso.”
“Ma che cos’è che vi da quest’impressione?”
“La noia che mi opprime. Io mi annoio.”
“Anche qui?”
“Sì, cara madre, anche qui, nonostante tutta la bontà che mi dimostrate.”
“Ma voi provate dentro di voi qualche impulso, qualche desiderio?”
“Nessuno.”
“Vi credo: la vostra indole sembra tranquilla.”
“Abbastanza.”
“Fredda, persino.”
“Non lo so.”
“Voi non conoscete il mondo?”
“Lo conosco poco.”
“Quale attrazione, allora, può avere per voi?”
“Non mi è molto chiaro; eppure bisogna che ne abbia.”
“Rimpiangete forse la libertà?”
“È così. E forse molte altre cose.”
“Quali sono, queste altre cose? Amica mia, parlatemi a cuore aperto; vorreste essere sposata?”
“Sarebbe sempre preferibile a quello che sono adesso, questo è certo.”
“Perché una simile preferenza?”
“Lo ignoro.”
“Lo ignorate? Ma ditemi, che impressione fa su di voi la presenza di un uomo?”
“Nessuna. Se è intelligente e parla bene, sto a sentirlo con piacere; se ha un bell’aspetto, lo noto.”
“E il vostro cuore non è turbato?”
“Finora non ha provato nessuna emozione.”
“Come! Quando hanno fissato i loro occhi accesi nei vostri, non avete sentito...”
“Talvolta un certo imbarazzo che mi faceva abbassare i miei.”
“Senza nessun turbamento?”
“Nessuno.”
“E i vostri sensi non vi dicevano niente?”
“Non so che cosa sia il linguaggio dei sensi.”
“Eppure, hanno un linguaggio.”
“Può darsi.”
“E voi non lo conoscete?”
“Affatto.”
“Come! voi... È un linguaggio molto dolce, vi piacerebbe conoscerlo?”
“No, cara madre, a che cosa mi gioverebbe?”
“A dissipare la vostra noia.”
“Ad accrescerla, forse. E poi, che significato ha questo linguaggio dei sensi, se non ha un oggetto?”
“Quando si parla, ci si rivolge sempre a qualcuno. Sicuramente meglio che intrattenersi da soli, benché anche questo non sia del tutto privo di piacere.”
“Non capisco niente di quello che dite.”
“Se tu volessi, cara figliola, potrei essere più chiara.”
“No, cara madre, no. Io non so niente e preferisco non sapere niente piuttosto che conoscere cose che forse mi renderebbero più degna che essere compianta di quanto già non lo sia. Non ho nessun desiderio, e non voglio averne, se non posso soddisfarli.”
“Perché non potresti?”
“Come potrei?”
“Come me.”
“Come voi! Ma non c’è nessuno in questo convento...”
“Ci sono io, cara amica, ci siete voi...”
“E con questo? che cosa sono io per voi? che cosa siete per me?”
“Oh, com’è innocente!”
“Oh, sì, è vero, cara madre, sono molto innocente, e preferirei morire piuttosto che non esserlo più.”
Ignoro che cosa potessero avere di sgradevole per lei queste ultime parole, ma all’improvviso le fecero cambiare espressione; si fece seria, imbarazzata; la mano che aveva posato sul mio ginocchio, dapprima smise di premere, poi si ritirò. Teneva gli occhi bassi. Le dissi:
“Mia cara madre, che cosa è accaduto? Mi è forse sfuggita qualche parola che potrebbe avervi offesa? Perdonatemi. Approfitto della libertà che mi avete concessa, non rifletto su quello che ho da dirvi, e inoltre, anche se riflettessi, non parlerei diversamente. Forse parlerei anche peggio. Le cose di cui stiamo parlando, mi sono così estranee... Perdonatemi!”
Nel così dire le gettai le braccia intorno al collo e le posai la testa sulla spalla. Lei fece altrettanto e mi strinse a sé con molto calore. Rimanemmo così per qualche istante; poi, ritrovando la sua tenerezza e la sua serenità, mi disse:
“Susanna, dormite bene?”
“Benissimo,” le risposi, “soprattutto da un po’ di tempo a questa parte.”
“E vi addormentate subito?”
“Di solito, sì.”
“Ma quando non vi addormentate subito, a che cosa pensate?”
“Alla mia vita passata, a quella che mi resta ancora, oppure prego Dio, o piango, che altro ancora?”
“E la mattina, quando vi svegliate presto?”
“Mi alzo.”
“Subito?”
“Subito.”
“Non vi piace stare a fantasticare?”
“No.”
“A riposarvi tra i guanciali?”
“No.”
“A godere del tepore del letto?”
“No.”
“Mai...”
A questo punto tacque, e fece bene; quel che aveva da chiedermi non era una cosa molto bella, e forse io faccio anche più male a dirla, ma ho deciso di non nascondere niente.
“Non avete mai avuto la tentazione di guardare con compiacimento come siete bella?”
“No, cara madre. Non so se io sia proprio bella come dite voi, e quand’anche lo fossi, si è belle per gli altri, non per se stesse.”
“Non avete mai pensato ad accarezzare questo petto, queste cosce, questo ventre, queste carni così sode, così dolci, così bianche?”
“Quanto a questo, oh, no di certo! Sarebbe peccato. E se mi fosse capitata una cosa simile, non so come avrei fatto a dirlo in confessione...”
Non so che cos’altro ci stavamo dicendo, quando vennero ad avvertirla che qualcuno la stava aspettando in parlatorio. Mi parve che quella visita non le fosse gradita e che avrebbe preferito continuare a parlare con me, benché non fosse proprio il caso di rimpiangere quello che ci stavamo dicendo. In ogni modo ci separammo.
La comunità non era mai stata felice come dal giorno in cui io ero entrata a farne parte. La superiora sembrava che non avesse più i suoi sbalzi d’umore; si diceva ch’io l’avessi equilibrata. Grazie a me ella concesse anche diversi giorni di ricreazione, e quelle che sono chiamate delle feste; in quei giorni si è servite un po’ meglio del solito, le funzioni sono più brevi e tutti gli intervalli tra le funzioni sono dedicati allo svago. Ma quel tempo felice doveva passare, per le altre, e per me.
La scena che vi ho descritto fu seguita da innumerevoli altre dello stesso genere sulle quali sorvolo. Ecco quale fu il seguito di quella di cui vi ho parlato.
La superiora cominciava a dar segni di irrequietudine; perdeva la sua bella allegria, la salute, il riposo. La notte seguente, mentre tutte dormivano e il convento era immerso nel silenzio, ella si alzò. Dopo aver girovagato per qualche tempo nei corridoi, venne alla mia cella. Io ho il sonno leggero ed ebbi l’impressione di riconoscerla. Si fermò; appoggiò probabilmente la fronte contro la porta e fece abbastanza rumore da svegliarmi caso mai avessi dormito. Rimasi silenziosa. Mi sembrò di sentire una voce che si lamentava, qualcuno che sospirava; mi colse dapprima un leggero brivido, poi mi decisi a dire Ave. Invece di rispondermi, si allontanò a passi leggeri. Tornò poco tempo dopo; i gemiti e i sospiri ricominciarono. Dissi ancora Ave, e si allontanò. Mi tranquillizzai, mi addormentai. Mentre dormivo, entrò e si sedette accanto al mio letto. Le tende erano socchiuse; ella teneva in mano una candela il cui bagliore mi rischiarava il viso, e colei che la portava mi guardava dormire: per lo meno fu quello che arguii dal suo atteggiamento quando aprii gli occhi. Era la superiora.
Mi sollevai di scatto; ella vide il mio spavento e mi disse:
“Non abbiate paura, Susanna, sono io...”
Posai di nuovo la testa sul guanciale e le chiesi:
“Cara madre, che cosa fate qui a quest’ora? Che cosa vi ha fatto venire qui? Perché non dormite?”
“Non riesco a dormire,” mi rispose, “e ci vorrà molto prima che dorma. Sogni tormentosi non mi danno requie. Appena ho gli occhi chiusi tutto il male che avete patito si presenta alla mia immaginazione; vi vedo preda di quelle donne disumane, vi vedo con i capelli sparsi sul viso; vi vedo con i piedi insanguinati, la torcia in mano, la corda intorno al collo; credo che stiano per uccidervi; rabbrividisco, tremo, un sudore gelido mi si diffonde per tutto i1 corpo; voglio accorrere in vostro aiuto; grido, mi sveglio, e inutilmente aspetto che torni il sonno. Ecco quello che mi è accaduto stanotte. Ho avuto paura che il cielo mi annunciasse che era accaduta una disgrazia alla mia amica; mi sono alzata, mi sono avvicinata alla vostra porta, ho teso l’orecchio, mi è sembrato che dormiste. Poi avete parlato, e allora me ne sono andata. Sono poi ritornata, voi avete parlato di nuovo, e ancora una volta me ne sono andata. Sono tornata una terza volta, e quando ho creduto che dormiste, sono entrata. È già un po’ di tempo che sono accanto a voi e che temo di svegliarvi. Dapprima sono stata incerta se scostare le vostre tende; volevo andarmene per timore di turbare il vostro riposo, ma non ho potuto resistere al desiderio di vedere se la mia cara Susanna stava bene. Vi ho guardata; come siete bella, anche quando dormite!”
“Mia cara madre, come siete buona!”
“Ho preso freddo, ma ora so che non ho nulla da temere per la mia figliola, e credo che dormirò. Datemi la vostra mano.”
Le detti la mano.
“Com’è tranquillo il polso! com’è regolare! Non vi è niente che possa eccitarlo.”
“Ho un sonno abbastanza tranquillo.”
“Come siete fortunata!”
“Cara madre, continuerete a prendere freddo,”
“Avete ragione; addio mia bella amica, addio; ora me ne vado.”
Ma non se ne andava e continuava a guardarmi: dagli occhi le sgorgavano due lacrime.
“Che cosa avete, cara madre?” le dissi. “Voi piangete; come mi dispiace avervi raccontato le mie sofferenze!...”
All’improvviso chiuse la porta, spense la candela, e si precipitò su di me, mi teneva stretta, con il viso incollato al mio. Le sue lacrime mi bagnavano le guance, sospirava, e mi diceva con voce spezzata e lamentosa:
“Cara amica, abbiate pietà di me.”
“Che cosa avete, cara madre?” le dissi. “Vi sentite male? Che cosa debbo fare?”
“Tremo,” mi disse, “mi sento rabbrividire; un freddo mortale mi corre per le ossa.”
“Volete che mi alzi e che vi ceda il mio posto?”
“No,” mi disse, “non è necessario che vi alziate; scostate solo un poco la coperta, perché mi possa avvicinare a voi, per riscaldarmi, e guarire.”
“Cara madre,” le dissi, “sapete che è proibito. Che cosa si direbbe, se si venisse a saperlo? Ho visto punire delle monache per cose molto meno gravi. Una volta, nel convento di Santa Maria, una monaca andò di notte nella cella di un’altra che era sua buona amica; non so dirvi tutto il male che ne pensarono. Il direttore spirituale mi ha chiesto più volte se nessuna mi aveva mai proposto di venire a dormire accanto a me e mi ha severamente raccomandato di rifiutare. Gli ho anche detto delle vostre carezze; io le trovo molto innocenti, ma lui è di parere diverso. Non so come ho potuto dimenticare i suoi consigli; eppure mi ero ripromessa di parlarvene.”
“Cara amica,” mi disse, “tutto dorme intorno a noi, nessuno ne saprà niente. Sono io che premio e che punisco; il direttore spirituale può dire quello che vuole, io non vedo nessun male nell’accogliere accanto a sé un’amica presa dall’ansia, che si è svegliata e durante la notte, nonostante i rigori della stagione, è venuta ad assicurarsi che la sua diletta non correva alcun rischio. Susanna, in casa dei vostri genitori, non avete mai condiviso lo stesso letto con una delle vostre sorelle?”
“No, mai.”
“Ma se se ne fosse presentata l’occasione, non l’avreste fatto senza scrupolo? Se la vostra sorella, inquieta e intirizzita dal freddo, fosse venuta a chiedervi un po’ di posto accanto a voi, l’avreste rifiutata?”
“Credo di no.”
“Io non sono forse la vostra cara madre?”
“Sì, lo siete, ma è proibito.”
“Cara amica, sono io che lo proibisco alle altre, ma che lo permetto e lo chiedo a voi. Lasciate ch’io mi riscaldi un momento, poi me ne andrò. Datemi la vostra mano...”
Gliela detti.
“Ecco,” mi disse, “toccate, guardate: tremo, rabbrividisco, sono un pezzo di marmo.”
Era vero.
“Oh, mia cara madre,” le dissi, “vi ammalerete. Ma aspettate! io mi spingo verso il bordo del letto, e voi potrete mettervi nel posto più caldo.”
Mi spostai da un lato, alzai la coperta, e lei si mise al mio posto. Oh, come stava male! Le sue membra erano tutte un tremito, voleva parlarmi, voleva avvicinarsi a me; non riusciva ad articolare parola, non riusciva a muoversi. Mi diceva sottovoce:
“Susanna, amica mia, avvicinatevi un poco...”
Allungò le braccia; io le voltavo la schiena; mi strinse dolcemente, mi trasse a sé; passò il braccio destro intorno al mio corpo, l’altro sopra, e mi disse:
“Sono un pezzo di ghiaccio; ho tanto freddo che ho paura a toccarvi, paura di farvi male.”
“Non abbiate timore, cara madre.”
Subito mi posò una mano sul petto e l’altra intorno alla vita; i suoi piedi stavano sotto i miei e io li premevo per riscaldarli. La cara madre mi diceva: “Ah, cara amica, sentite come i miei piedi si sono riscaldati subito perché non vi è niente che li separi dai vostri.”
“In tal caso,” le dissi, “che cosa impedisce che vi scaldiate dappertutto nello stesso modo?”
“Niente, se volete.”
Mi ero girata; lei aveva aperto la camicia ed io stavo per aprire la mia allorché all’improvviso furono bussati due colpi violenti alla porta. Spaventata, mi butto immediatamente fuori dal letto da una parte, mentre la superiora fa altrettanto dall’altra parte; tendiamo l’orecchio e sentiamo qualcuno che torna, in punta di piedi, nella cella vicina.
“Ah,” esclamai, “è suor Santa Teresa; vi avrà vista passare nel corridoio ed entrare da me; ci avrà ascoltato; avrà sorpreso la nostra conversazione; che cosa dirà?...”
Ero più morta che viva.
“Sì, è lei,” confermò la superiora con tono irritato, “è lei, non vi è dubbio, ma spero che si ricorderà per un pezzo della sua temerarietà.”
“Ah, cara madre,” le dissi, “non le fate del male!”
“Susanna,” mi rispose, “addio, buona notte. Tornate a letto, dormite bene. Vi dispenso dall’orazione. Vado da quella sventata. Datemi la mano...”
Gliela tesi da una parte all’altra del letto e lei rimboccò la manica che mi copriva il braccio; lo baciò sospirando per tutta la lunghezza, dalla punta delle dita fino alla spalla, poi uscì assicurando che la temeraria che aveva osato disturbarla se ne sarebbe ricordata. Subito mi spinsi dall’altra parte del letto verso la porta, e tesi l’orecchio. La superiora entrò da suor Teresa. Mi prese la tentazione di alzarmi e di andare a mettermi tra suor Teresa e la superiora caso mai la scena si fosse fatta violenta. Ma ero così turbata e così a disagio che preferii restare a letto, dove non riuscii a prendere sonno. Pensai che sarei diventata la favola del convento, che quella avventura, che di per sé era del tutto innocente, sarebbe stata riferita nella luce più sfavorevole; che qui sarebbe stato peggio che a Longchamp, dove fui accusata di una cosa che ignoro; che la nostra colpa sarebbe giunta alle orecchie dei superiori, che la nostra madre sarebbe stata deposta e che entrambe saremmo state severamente punite. Intanto stavo con l’orecchio teso e aspettavo con impazienza che la nostra madre uscisse dalla cella di suor Teresa. Fu, a quanto pare, una faccenda difficile da sistemarsi, perché vi trascorse quasi tutta la notte. Come la compiangevo! Era in camicia, tutta nuda, furente di collera, e intirizzita dal freddo.
La mattina, avevo voglia di approfittare del permesso che mi aveva accordato la superiora e di rimanere a letto, ma ebbi come l’idea che sarebbe stato meglio non farne niente. Mi vestii in fretta e mi trovai per prima nel coro dove non si videro né la superiora, né suor Santa Teresa, la qual cosa mi fece molto piacere. In primo luogo perché mi sarebbe stato difficile affrontare senza imbarazzo la presenza di suor Teresa; in secondo luogo, se le era stato permesso di non presentarsi all’uffizio, c’era da presumere che avesse ottenuto il perdono a condizioni che dovevano tranquillizzarmi.
Avevo indovinato: era appena terminato l’uffizio che la superiora mi mandò a chiamare. Mi recai da lei. Era ancora a letto e aveva un’aria abbattuta. Mi disse:
“Ho sofferto; non ho dormito; suor Santa Teresa è pazza; se si comporta ancora così, la farò rinchiudere.”
“Ah, cara madre,” le dissi, “non la fate rinchiudere mai.”
“Dipenderà dal modo in cui si comporta. Mi ha promesso di migliorare, e ci conto. Ma voi, cara Susanna, come state?”
“Bene, cara madre.”
“Avete almeno riposato un po’?”
“Pochissimo.”
“Mi hanno detto che siete andata nel coro; perché non siete rimasta a letto?”
“Non ci sono stata bene; e poi ho pensato che fosse meglio...”
“No, non ci sarebbe stato inconveniente di sorta... Ora, però, ho bisogno di dormire un po’; vi consiglio di fare altrettanto a meno che non preferiate accettare un posto accanto a me.”
“Vi sono infinitamente obbligata, cara madre, ma sono abituata a dormire da sola e non potrei dormire con un’altra.”
“Allora andate. Io non scenderò a pranzo in refettorio; mi farò servire qui. Forse non mi alzerò per il resto della giornata. Voi verrete con alcune altre sorelle che ho fatto avvertire.”
“Ci sarà anche suor Santa Teresa?” le chiesi.
“No,” mi rispose.
“Non mi dispiace.”
“E perché?”
“Non lo so, forse ho paura di incontrarla.”
“Stai tranquilla, figliola mia; ti garantisco che ella ha più paura di te di quanta tu non debba averne di lei.”
La lasciai, andai a riposarmi. Nel pomeriggio, mi recai dalla superiora dalla quale trovai un gruppo alquanto numeroso delle monache più giovani e più carine del convento; le altre avevano fatto la loro visita e se ne erano andate. Voi che vi intendete di pittura, vi assicuro, signor marchese, che era davvero un quadro delizioso. Immaginatevi un laboratorio di dieci o dodici persone, di cui la più giovane poteva avere quindici anni e la più vecchia non arrivava a ventitré; una superiora di circa quarant’anni, bianca, fresca, rotonda, semi sollevata sul letto, con un doppio mento portato in giro con buona grazia, braccia tonde come se fossero state tornite, dita affusolate e punteggiate di fossette, due occhi neri, grandi, vivaci e teneri, quasi mai del tutto aperti, occhi socchiusi come se colei che li possedeva facesse fatica ad aprirli, labbra vermiglie come rose, denti bianchi come latte, le più belle guance che si possano immaginare, la bella testa sprofondata in un morbido guanciale, le braccia allungate mollemente lungo i fianchi con i gomiti appoggiati su due piccoli cuscini. Io ero seduta sull’orlo del letto e non facevo niente, un’altra stava in una poltrona con un piccolo telaio da ricamo sulle ginocchia; altre, verso le finestre, facevano del merletto; ve n’erano sedute per terra su dei cuscini tolti dalle seggiole, che cucivano, ricamavano, tessevano o filavano all’arcolaio. Alcune erano bionde, altre brune; nessuna assomigliava all’altra benché tutte fossero belle. I loro caratteri erano vari come le loro fisionomie; ve n’erano di serene, di gaie, di malinconiche o tristi. Tutte lavoravano, salvo io, come già vi ho detto. Non era difficile riconoscere le amiche dalle indifferenti e dalle nemiche; le amiche si erano messe o l’una accanto all’altra, o di fronte, e pur intente al lavoro, chiacchieravano, si consigliavano, si guardavano furtivamente, si toccavano le dita col pretesto di scambiarsi uno spillo, un ago, delle forbici. La superiora le seguiva con lo sguardo; all’una rimproverava l’eccessiva applicazione, all’altra la pigrizia; a questa l’indifferenza, a quella la tristezza. Si faceva portare il lavoro, lodava o biasimava; a una monaca rimetteva a posto l’acconciatura:
“Questo velo scende troppo in avanti... Questa benda copre troppo il viso, non si vedono abbastanza le guance... Guarda come stanno male queste pieghe...”
A ciascuna distribuiva leggeri rimproveri e lievi carezze. Mentre ciascuna era occupata in tal modo, sentii battere piano alla porta. Mi mossi per aprire. La superiora mi disse:
“Suor Santa Susanna, tornerete qui?”
“Sì, cara madre.”
“Non mancate, perché ho qualcosa di importante da comunicarvi.”
“Torno subito.”
Era quella povera suor Santa Teresa. Per qualche istante rimanemmo entrambe senza parlare; poi le chiesi: “Cara sorella, cercate di me?”
“Sì.”
“Che cosa posso fare per voi?”
“Ascoltatemi. Sono incorsa nella disgrazia della nostra cara madre; credevo che mi avesse perdonata e avevo qualche buona ragione per crederlo; invece voi siete tutte riunite da lei, mentre io non ci sono, ed ho l’ordine di rimanere nella mia cella.”
“Vorreste entrare?”
“Sì.”
“Desiderate ch’io ne solleciti il permesso?”
“Sì.”
“Aspettate, cara amica, ci vado subito.”
“Davvero le parlerete in mio favore?”
“Certamente. Perché non ve lo dovrei promettere? E perché non dovrei farlo dopo avervelo promesso?”
“Ah,” esclamò guardandomi teneramente, “le perdono, le perdono la simpatia che ha per voi. Voi possedete tutte le seduzioni, l’anima più bella e il corpo più bello.”
Ero felicissima di poterle fare quel piccolo favore. Rientrai nella stanza. In mia assenza un’altra aveva preso il mio posto sull’orlo del letto della superiora e stava china su di lei con il gomito appoggiato fra le sue cosce, facendole vedere il lavoro che stava eseguendo. Con gli occhi semichiusi la superiora diceva di sì o di no quasi senza guardarla, mentre io ero in piedi accanto a lei senza che se ne accorgesse. Tuttavia non le ci volle molto a riprendersi dal suo leggero svagamento. La giovane mi restituì il mio posto. Mi sedetti di nuovo; poi, chinandomi dolcemente verso la superiora che si era un po’ sollevata sui guanciali, rimasi in silenzio, guardandola però come se avessi da domandarle una grazia.
“Allora,” mi chiese, “che cosa c’è? Parlate! Che cosa volete? È forse in mio potere rifiutarvi qualcosa?”
“Suor Santa Teresa...”
“Capisco; sono molto scontenta di lei, ma suor Susanna intercede in suo favore, e io le concedo il perdono; andate a dirle che può entrare.”
Accorsi fuori. La poveretta aspettava alla porta; le dissi di venire avanti; tremando ubbidì con gli occhi bassi. Teneva in mano un lungo pezzo di mussola appuntato a un modello che le sfuggì di mano ai primi passi: lo raccattai e prendendola per un braccio la condussi dalla superiora. Si buttò in ginocchio, le afferrò una mano che baciò sospirando e piangendo. Poi prese una mano anche a me, la congiunse a quella della superiora e le baciò entrambe. La superiora le fece cenno di alzarsi e di scegliersi un posto. Ubbidì. Fu servita una merenda. La superiora si alzò; non si sedette con noi, ma si aggirava intorno alla tavola, e ora posava la mano sulla testa di una monaca, rovesciandogliela delicatamente all’indietro e baciandola sulla fronte; ora scopriva il collo di un’altra e vi posava sopra la mano; passava poi a una terza, e lasciava scorrere su di lei la sua mano carezzevole oppure gliela posava sulla bocca; spilluzzicava le cose che erano state servite e le distribuiva a questa o a quella. Dopo che ebbe girato per un po’, si fermò di fronte a me guardandomi con occhi molto affettuosi e molto teneri mentre le altre abbassavano i loro, come se avessero temuto di obbligarla a reprimersi o a distrarsi, specialmente suor Santa Teresa. Terminata la merenda, mi misi al clavicembalo ed accompagnai due monache che cantarono senza alcun metodo, ma con gusto e con una bella voce intonata; cantai anch’io accompagnandomi. La superiora era seduta ai piedi del clavicembalo e sembrava assaporare un grandissimo piacere nel sentirmi e nel vedermi; le altre ascoltavano in piedi senza far niente, oppure si erano rimesse al lavoro. Fu un pomeriggio assai piacevole, dopo di che tutte si ritirarono.
Stavo uscendo con le altre, quando la superiora mi fermò: “Che ore sono?” mi chiese.
“Fra poco saranno le sei.”
“Alcune discrete stanno per giungere. Ho riflettuto su quello che mi avete detto a proposito della vostra uscita da Longchamp; ho comunicato loro le mie idee che sono state approvate, e adesso abbiamo una proposta da farvi. È impossibile che non vada in porto, e se va bene, significherà una piccola fortuna per il convento e qualche vantaggio per voi.”
Alle sei, entrarono le discrete. Nei conventi la discrezione è sempre alquanto vecchia, persino decrepita. Mi alzai, loro si sedettero e la superiora mi disse: “Suor Santa Susanna, non mi avete detto che dovevate alla bontà del signor Manouri la dote che avete portata in convento?”
“Sì, cara madre.”
“Perciò non mi sono sbagliata: le suore di Longchamp sono rimaste in possesso della dote che avete portato entrando da loro?”
“Sì, cara madre.”
“E non vi hanno restituito niente?”
“No, cara madre.”
“Non vi hanno costituito una pensione?”
“No, cara madre.”
“Non è giusto. Questo è quanto ho comunicato alle nostre discrete ed esse pensano, come me, che siete in diritto di far ricorso affinché tale dote vi sia restituita a vantaggio del nostro convento, oppure che ne godiate la rendita. Quel che avete ricevuto grazie all’interessamento del signor Manouri per voi, non ha niente a che vedere con quello che vi debbono le suore di Longchamp; egli non vi ha fornito la vostra dote per saldare un debito con loro.”
“Non credo; ma per assicurarsene, la cosa migliore è di scrivere all’avvocato.”
“Non vi è alcun dubbio; ma nel caso in cui la sua risposta fosse quella che ci auguriamo, ecco quali sono le nostre proposte. Intenteremo un processo a vostro nome contro il convento di Longchamp; il nostro ne sosterrà le spese che non saranno eccessive giacché vi sono tutti i motivi per credere che il signor Manouri non rifiuterà di incaricarsi di questo affare. Se vinciamo, il convento dividerà a metà con voi il capitale, o la rendita. Che cosa ne pensate, cara sorella? Ma voi non rispondete. A che cosa state pensando?”
“Sto pensando che quelle suore di Longchamp sono state molto crudeli con me, ma che sarebbe per me una grandissima afflizione se immaginassero che intendo vendicarmi.”
“Non si tratta di vendicarvi; si tratta di chiedere che vi venga reso ciò che vi spetta.”
“Dare ancora una volta spettacolo di me!...”
“Questo è l’inconveniente minore; voi non sarete quasi mai nominata. E poi la nostra comunità è povera, mentre quella di Longchamp è ricca. Voi sarete la nostra benefattrice, almeno fintanto che vivrete. Sebbene non abbiamo bisogno di questo motivo per interessarci a voi; noi tutte vi vogliamo bene...”
E tutte le discrete in coro:
“Chi non le vorrebbe bene? È perfetta.”
“Io potrei scomparire da un momento all’altro; potrebbe darsi che un’altra superiora non provasse per voi gli stessi sentimenti che provo io. Oh, no! non li proverebbe di certo. Potreste avere qualche piccola malattia, qualche piccola necessità... In tal caso è molto confortante possedere un po’ di denaro di cui si possa disporre per soddisfare se stessi o per obbligare gli altri.”
“Care madri,” dissi loro, “le vostre considerazioni non devono essere trascurate, giacché avete la bontà di farle; ve ne sono altre che mi stanno più a cuore, ma non vi è ripugnanza ch’io non sia disposta a vincere per voi. La sola grazia che ho da chiedervi, cara madre, è di non avviare nessuna pratica senza prima averne parlato in mia presenza con il signor Manouri.”
“Non vi è niente di più opportuno. Volete scrivergli voi stessa?”
“Come volete voi, cara madre.”
“Scrivetegli; e per non stare a ripensarci due volte, poiché questo genere di affari non mi piace per niente e mi annoia da morire, scrivetegli subito.”
Mi dettero penna, carta e inchiostro e senza por tempo in mezzo pregai il signor Manouri di degnarsi di venire ad Arpajon non appena le sue occupazioni glielo avessero consentito, dato che avevo ancora bisogno del suo aiuto e del suo consiglio per un affare di una certa importanza ecc. ecc.
Il consiglio riunito lesse quella lettera, la approvò e quindi fu spedita.
Il signor Manouri venne qualche giorno dopo. La superiora gli spiegò di che cosa si trattasse ed egli non esitò un attimo a condividerne il parere; i miei scrupoli furono definiti ridicolaggini; fu deciso che le monache di Longchamp sarebbero state citate subito l’indomani, come infatti avvenne. Ed ecco che, mio malgrado, il mio nome ricomparve nei memoriali, negli allegati, nelle udienze, con dovizia di particolari, supposizioni, menzogne, e di tutte le infamie suscettibili di rendere una persona invisa ai giudici e odiosa agli occhi del pubblico.
Ma ditemi, signor marchese, è proprio permesso agli avvocati calunniare come aggrada loro? Non vi è modo di invocare giustizia contro di loro? Se avessi potuto prevedere tutte le amarezze che quella causa avrebbe comportato, vi assicuro che non avrei mai permesso che venisse intrapresa. Si giunse al punto di spedire a diverse monache del nostro convento gli atti pubblicati contro di me. Ad ogni istante, esse venivano a chiedermi i particolari di avvenimenti orribili in cui non c’era parvenza di verità. Più mi dimostravo ignara, più mi credevano colpevole. Dal momento che non spiegavo niente, non confessavo niente, negavo tutto, credevano che tutto fosse vero: sorridevano, mi dicevano parole sibilline, ma assai offensive; davanti alla mia innocenza, facevano spallucciate. Piangevo, ero desolata.
Un dolore non arriva mai da solo. Giunse il tempo della confessione. Mi ero già accusata delle prime carezze ricevute dalla superiora e il direttore spirituale mi aveva esplicitamente proibito di prestarmici ancora. Ma come si fa a rifiutarsi a cose che procurano tanto piacere a un’altra persona da cui si dipende totalmente, e nelle quali non si vede alcun male?
Poiché questo direttore spirituale avrebbe avuto un gran ruolo nel seguito delle mie memorie, credo che sia il momento opportuno per farvelo conoscere.
È un francescano e si chiama padre Lemoine; non ha più di quarantacinque anni. La sua fisionomia è tra le più gradevoli che si possano vedere: dolce, serena, aperta, sorridente, piacevole quando non sta lì a riflettere. Ma quando riflette, corruga la fronte, aggrotta le sopracciglia, abbassa gli occhi e il suo comportamento si fa austero. Non conosco due uomini più diversi del padre Lemoine all’altare e del padre Lemoine in parlatorio, solo o in compagnia. Del resto tutti coloro che sono in religione si comportano nello stesso modo e anch’io mi sono sorpresa diverse volte in procinto di recarmi alla grata, fermarmi di botto, aggiustarmi il velo, atteggiare il viso, gli occhi, la bocca, le mani, le braccia, il portamento, assumere per la circostanza un contegno e una modestia che duravano più o meno a seconda delle persone con cui dovevo parlare.
Il padre Lemoine è alto, ben fatto, allegro, assai gradevole quando dimentica di controllarsi; parla meravigliosamente bene; nel suo convento ha fama di gran teologo, e nel mondo quella di gran predicatore; la sua conversazione incanta; è un uomo assai dotto in materie che nulla hanno a che vedere con il suo stato: ha una voce delle più belle, conosce la musica, la storia e le lingue; è dottore della Sorbona. Benché giovane ha già rivestito le cariche principali del suo ordine; non è un uomo intrigante, né ambizioso. È amato dai suoi confratelli. Aveva sollecitato la carica di superiore del convento di Etampes come un posto tranquillo dove avrebbe potuto dedicarsi senza esserne distratto a qualche studio che aveva cominciato. Gli era stata accordata. È cosa di grande importanza per un convento di monache la scelta di un confessore: è bene essere dirette da un uomo importante e di qualità. Si fece di tutto per avere il padre Lemoine, e lo si ebbe, per un caso davvero straordinario.
Gli mandavano la carrozza del convento la vigilia delle feste solenni, egli veniva. Bisognava vedere che subbuglio provocava in tutta la comunità l’attesa del suo arrivo; come si era allegre; come ci si chiudeva in cella, come ciascuna si preparava alla confessione e a tenerlo impegnato il più a lungo possibile.
Era la vigilia della Pentecoste. Aspettavamo il padre Lemoine. Io ero agitata. La superiora se ne accorse e me ne parlò. Non le nascosi la ragione della mia preoccupazione. Mi parve più allarmata di me, benché facesse di tutto per tenermelo celato; definì il padre Lemoine un uomo ridicolo, si fece gioco dei miei scrupoli, mi chiese se il padre Lemoine ne sapesse più della nostra coscienza sull’innocenza dei suoi e dei miei sentimenti, e se la mia coscienza mi rimproverava qualcosa. Le risposi di no.
“Ebbene,” mi disse, “io sono la vostra superiora, voi mi dovete obbedienza e quindi vi ordino di non parlargli di queste sciocchezze. Inutile che andiate a confessarvi, se non avete che delle inezie da raccontargli.”
Intanto era arrivato il padre Lemoine e io mi stavo preparando alla confessione mentre le più frettolose si erano già impadronite di lui. Si avvicinava il mio turno, allorché la superiora venne verso di me, mi trasse in disparte, e mi disse: “Suor Santa Susanna, ho pensato a quello che mi avete detto. Tornatevene nella vostra cella, non voglio che oggi andiate a confessarvi.”
“E perché,” le risposi, “cara madre? Domani è festa solenne, e giorno di comunione generale; che cosa penserebbero se io fossi la sola che non si avvicina alla sacra mensa?”
“Poco importa. Dicano pure tutto quello che vogliono, ma voi non andrete a confessarvi.”
“Cara madre,” la pregai, “se è vero che mi amate, di grazia non mi infliggete questa mortificazione.”
“No, no, è impossibile; con quell’uomo mi combinereste qualche guaio, ed io non ne voglio.”
“No, cara madre, non vi procuerò nessun guaio!”
“Allora, promettetemi... Ma è inutile; domattina verrete in camera mia, vi confesserete a me; non avete commesso nessuna colpa per cui non possa riconciliarvi con Dio e assolvervi. Così potrete comunicarvi insieme alle altre. Andate.”
Mi ritirai, e me ne stavo nella mia cella, triste, inquieta, nervosa, non sapendo quale partito prendere, se andare dal padre Lemoine nonostante il divieto della mia superiora, se limitarmi alla sua assoluzione il giorno dopo, se partecipare alla comunione con il resto del convento, o tenermi lontana dai sacramenti senza curarmi delle chiacchiere. In quel mentre la superiora entrò. Si era confessata, e il padre Lemoine le aveva chiesto perché non mi avesse visto, e se fossi malata. Ignoro cosa le avesse risposto, ma la conclusione fu che mi aspettava al confessionale.
“Andate,” mi disse, “giacché è necessario, ma promettetemi che tacerete.”
Io esitavo. Ella insisteva.
“Piccola sciocca,” mi diceva, “che male volete che ci sia a tacere ciò che non è male fare?”
“E che male c’è a dirlo?” replicai.
“Nessuno, ma vi può essere qualche inconveniente. Chi sa quale importanza quell’uomo vi può attribuire. Promettetemi perciò...”
Esitai ancora, ma alla fine mi impegnai a non dire niente se non mi avesse fatto domande, e andai.
Mi confessai, non feci parola di quell’argomento, ma il direttore mi interrogò, ed io non dissimulai nulla.
Mi fece mille domande strane di cui continuo a non capire niente oggi che le ricordo, ma sulla superiora si espresse in termini che mi fecero fremere. La definì indegna, libertina, cattiva monaca, donna perniciosa, anima corrotta, e mi ingiunse, sotto pena di peccato mortale, di non trovarmi mai da sola con lei e di non tollerare nessuna delle sue carezze.
“Ma padre,” gli dissi, “è la mia superiora, ella può entrare nella mia cella, chiamarmi da lei quando le piace.”
“Lo so, lo so, e ne sono desolato, cara figliola,” mi disse, “sia lodato Iddio che vi ha preservata fino ad oggi! Non ardisco spiegarmi con voi più chiaramente. Nel timore di diventare a mia volta complice della vostra indegna superiora, e di avvizzire con l’alito avvelenato, che mio malgrado mi uscirebbe dalle labbra, un fiore delicato che si può conservare fresco e senza macchia fino alla vostra età solo per una protezione speciale della divina provvidenza, vi ordino di fuggire la vostra superiora, di respingerne le carezze, di non entrare mai da sola nella sua cella, di chiudere a chiave la vostra porta, specialmente di notte, di lasciare il letto se entra nella vostra cella vostro malgrado, di andare nel corridoio, di chiamare gente se occorre, di scendere nuda fino ai piedi dell’altare, di riempire il convento delle vostre grida, e di fare tutto quello che l’amore di Dio, il timore del peccato, la santità del vostro stato e l’interesse della vostra salvezza vi ispirerebbero, se Satana in persona si presentasse a voi e vi perseguitasse. Sì, figliola mia, Satana! È sotto questo aspetto che sono costretto a mostrarvi la vostra superiora; ella è sprofondata nell’abisso del peccato e cerca di trascinarci anche voi; voi vi sareste già con lei, se la vostra stessa innocenza non l’avesse riempita di terrore e non l’avesse fermata.”
Alzando gli occhi al cielo, esclamò:
“Mio Dio! continuate a proteggere questa figliola... Dite con me Satana vade retro, apage Satana. Se quella sciagurata vi interroga, ditele tutto, ripetetele il mio discorso; ditele che sarebbe meglio che non fosse mai nata, o che precipitasse da sola all’inferno per morte violenta.”
“Ma padre mio,” gli risposi, “l’avete sentita voi stesso poco fa.”
Non replicò, ma emettendo un profondo sospiro, appoggiò le braccia contro una parete del confessionale, e vi posò sopra la testa come un uomo penetrato di dolore. Rimase per un certo tempo in quella posizione. Io non sapevo che cosa pensare; mi tremavano le ginocchia, ero turbata e sconvolta in maniera incredibile. Ero quale un viandante che camminasse nelle tenebre, tra precipizi invisibili, colpito da ogni lato da voci urlanti: “È finita per te!” Guardandomi poi con un’aria tranquilla, ma intenerita, mi disse:
“Godete buona salute?”
“Sì, padre.”
“Non sarebbe troppo duro per voi passare una notte senza dormire?”
“No, padre.”
“In tal caso,” mi disse, “stanotte non andrete a letto; subito dopo cena andrete in chiesa, vi prosternerete ai piedi dell’altare e vi passerete la notte in preghiera. Voi non sapete che pericolo avete corso; ringrazierete Dio di avervi preservata, e domani vi accosterete alla sacra mensa con tutte le altre monache. Per penitenza, vi terrete lontana dalla vostra superiora, e respingerete le sue carezze avvelenate. Andate. Per parte mia unirò le mie preghiere alle vostre. Quante preoccupazioni mi cagionerete! Mi rendo conto di tutte le conseguenze del consiglio che vi do, ma sono costretto a darvelo: lo debbo a voi, come lo debbo a me stesso. Dio è colui che comanda, e noi non abbiamo che una legge.”
Non mi ricordo di quello che mi disse, signore, che in maniera molto approssimativa. Oggi che metto a confronto il suo discorso così come ve l’ho riferito, con l’impressione terribile che produsse su di me, trovo che non vi è nessun rapporto. Ciò deriva dal fatto che il mio racconto è frammentario, sconnesso, che vi mancano molte cose che non ricordo più perché non vi collegavo nessuna idea distinta e non vedevo, come tuttora non vedo, quale importanza avessero certe cose contro le quali recriminava con la massima violenza. Per esempio, che cosa trovava di così strano nella scena del clavicembalo? Non esistono forse persone su cui la musica produce un’impressione vivissima? Anche a me hanno detto che certe arie, certe modulazioni, mutavano completamente la mia fisionomia; in quei momenti io ero del tutto fuori di me, non sapevo che cosa mi stesse succedendo. Non per questo credo che fossi meno innocente. Perché non poteva accadere la stessa cosa alla mia superiora, che nonostante tutte le sue follie e i suoi sbalzi di umore, era una delle donne più sensibili che ci fossero al mondo? Non poteva sentire una storia un po’ commovente senza sciogliersi in lacrime. Quando le raccontai la mia storia, la misi in uno stato pietoso. Perché le faceva una colpa anche della sua commiserazione? E la scena della notte, della quale aspettava la fine con un terrore mortale?... Di sicuro quell’uomo è troppo severo.
In ogni caso misi in atto punto per punto quello che mi aveva ordinato, e di cui aveva certamente previsto le conseguenze immediate. Appena uscita dal confessionale, andai a prosternarmi ai piedi dell’altare. La mia mente era sconvolta dal terrore; rimasi là fino al momento della cena. La superiora, preoccupandosi per ciò che poteva essermi successo, mi aveva fatta chiamare; le era stato risposto che ero in preghiera. Più volte si era presentata alla porta del coro, ma io avevo finto di non scorgerla. L’ora della cena suonò, e mi recai in refettorio. Cenai in fretta, e una volta terminata la cena, tornai subito in chiesa. Non comparvi alla ricreazione della sera; all’ora di ritirarsi e di andare a coricarsi, non risalii. La superiora non ignorava che cosa stessi facendo. La notte era assai inoltrata e tutto il convento era silenzioso, allorché scese da me. Il ritratto con il quale il direttore spirituale me l’aveva dipinta, mi si ripresentò all’immaginazione; il tremito mi colse, non osai guardarla. Pensai che l’avrei vista con un viso orrendo, tutto avvolto nelle fiamme, e dicevo dentro di me: Satana vade retro, apage Satana. Mio Dio, salvatemi, allontanate da me questo demonio!
La superiora si inginocchiò, e dopo aver pregato per un certo tempo, mi disse:
“Cosa fate qui, suor Santa Susanna?”
“Lo vedete, signora.”
“Sapete che ore sono?”
“Sì, signora.”
“Perché non siete rientrata nella vostra cella quando è suonata l’ora?”
“Perché mi preparavo a celebrare domani la grande festa.”
“Avevate dunque l’intenzione di passare qui la notte?”
“Sì, signora.”
“Chi ve ne ha dato il permesso?”
“Me l’ha ordinato il direttore spirituale.”
“Il direttore spirituale non può ordinare niente contro la regola del convento, e io vi ordino di andare a coricarvi.”
“Questa è la penitenza che mi ha imposto.”
“La sostituirete con altre opere.”
“La scelta non spetta a me.”
“Suvvia, figliola mia,” mi disse, “venite. Il fresco della chiesa durante la notte vi nuocerà; pregherete nella vostra cella.”
Dopo di che volle prendermi per la mano, ma io mi allontanai bruscamente.
“Voi mi fuggite!” mi disse.
“Sì, signora, vi fuggo.”
Rassicurata dalla santità del luogo, dalla presenza del divino, dall’innocenza del mio cuore, osai alzare gli occhi su di lei; ma non appena l’ebbi guardata, emisi un gran grido e cominciai a correre per il coro come una forsennata, gridando: “Vattene, Satana!...”
La superiora non mi inseguiva. Rimaneva al suo posto tendendo le braccia verso di me, mi diceva con la voce più commovente e soave:
“Che cosa avete? Che cosa vi suscita tanto spavento? Fermatevi. Non sono Satana. Sono la vostra superiora e la vostra amica.”
Mi fermai, voltai di nuovo la testa verso di lei e vidi che ero stata spaventata da un’apparenza bizzarra creata dalla mia immaginazione. Questo accadeva perché rispetto alla lampada della chiesa, lei si trovava in una posizione tale che soltanto il viso e l’estremità delle mani venivano ad essere illuminate, mentre il resto rimaneva in ombra, cosa che le conferiva un aspetto singolare. Riavutami un poco, mi buttai a sedere in uno stallo. Ella si avvicinò e stava per sedersi nello stallo vicino, allorché io mi alzai e andai a mettermi nello stallo sottostante. Andammo così entrambe di stallo in stallo finché arrivammo all’ultimo. A questo punto mi fermai e la scongiurai di lasciare almeno uno spazio vuoto fra me e lei.
“Va bene!” mi disse.
Ci sedemmo entrambe, lasciando fra noi uno stallo vuoto. Allora la superiora prese la parola e mi disse:
“Potrei sapere, Susanna, per quale ragione la mia presenza vi suscita tanto spavento?”
“Cara madre,” le dissi, “perdonatemi. Non sono io, è il padre Lemoine. Mi ha dipinto la tenerezza che avete per me, le carezze che mi fate e nelle quali vi confesso che io non vedo alcun male, sotto le tinte più spaventose. Mi ha ordinato di fuggirvi, di non entrare più da sola nella vostra cella, di uscire dalla mia quando entrate voi. Vi ha presentata ai miei occhi come il demonio, e Dio sa cos’altro non ha detto su di voi...”
“Gli avete dunque parlato?”
“No, cara madre, ma non ho potuto fare a meno di rispondergli.”
“Allora, sono davvero orribile ai vostri occhi?”
“No, cara madre, non posso impedirmi di amarvi, di sentire tutto il valore delle vostre premure, di pregarvi di usarmele ancora, ma io obbedirò al mio direttore spirituale.”
“Così, non verrete più a trovarmi?”
“No, cara madre.”
“Non mi riceverete più nella vostra cella?”
“No, cara madre.”
“Respingerete le mie carezze?”
“Mi costerà molto, perché sono nata per le carezze e mi piace essere carezzata; ma dovrò farlo, l’ho promesso al direttore spirituale e l’ho giurato ai piedi dell’altare. Se potessi farvi intendere il modo in cui si spiega! È un uomo pio, un uomo illuminato; che interesse può avere a mostrarmi il pericolo dove non esiste; ad allontanare il cuore di una monaca dal cuore della sua superiora? Ma può essere che riconosca in azioni del tutto innocenti da parte nostra, Un germe di corruzione segreta che ritiene completamente sviluppato in voi e che teme voi sviluppiate in me. Non vi nasconderò che ripensando alle impressioni che a volte ho provato... Per quale motivo, cara madre, uscendo dalla vostra cella e tornando nella mia, mi sentivo agitata, svagata? Perché quella specie di tedio che non avevo mai provato? Perché, io che non ho mai dormito di giorno, mi sentivo scivolare nel sonno? Credevo che soffriste di una malattia contagiosa il cui effetto cominciava ad agire su di me. Il padre Lemoine la vede assai diversamente.”
“E come la vede?”
“Vede tutte le nefandezze del peccato, la vostra perdita ormai senza speranza, la mia imminente, o che so io...”
Suvvia,” mi disse, “il vostro padre Lemoine è un visionario, non è questo il primo rabbuffo che mi riserva. Basta che una tenera amicizia mi leghi a qualcuna perché subito si affanni a montarle la testa; poco c’è mancato che rendesse pazza quella povera suor Santa Teresa. Ora comincia proprio a darmi fastidio e mi libererò di quell’uomo; inoltre abita a dieci leghe da qui e farlo venire è sempre una complicazione. Non lo si può avere quando si vuole. Ma di questo parleremo con più calma. Non volete dunque risalire?”
“No, cara madre; vi chiedo, di grazia, che mi permettiate di passare qui la notte. Se venissi meno a questo dovere, domani non oserei accostarmi ai sacramenti con il resto della comunità. E voi, cara madre, vi comunicherete?”
“Certamente.”
“Ma allora, il padre Lemoine non vi ha detto niente?”
“No.”
“Come può essere?”
“Non ha avuto l’occasione di parlarmene. Ci si va a confessare per accusarsi dei propri peccati e io non trovo che sia un peccato amare teneramente una cara fanciulla come suor Santa Susanna. Se mai vi è peccato, è quello di concentrare su di lei sola un sentimento che dovrebbe essere suddiviso tra tutte quelle che compongono la comunità, ma questo non dipende da me; non posso impedirmi di riconoscere il merito là dove si trova e di accordargli la mia preferenza. Non chiedo perdono a Dio e non capisco come il vostro padre Lemoine veda il sigillo della mia dannazione in una parzialità così naturale e dalla quale è così difficile difendersi. Io cerco di fare la felicità di tutte, ma ve n’è una che stimo e che amo più delle altre, perché più amabile e più stimabile. Ecco qual è la mia colpa verso di voi; la trovate così grave, suor Santa Susanna?”
“No, cara madre.”
“Suvvia, cara figliola, recitiamo, voi ed io, ancora una preghierina, e poi ritiriamoci.”
La supplicai di nuovo che mi permettesse di passare la notte in chiesa; acconsentì, a condizione che non accadesse mai più, poi si ritirò.
Ripensai a ciò che mi aveva detto. Chiesi a Dio di illuminarmi. Riflettei e, tutto considerato, conclusi che per quanto due persone fossero dello stesso sesso, vi potesse essere un qualcosa di indecente nel modo in cui si testimoniavano la loro amicizia, che il padre Lemoine, uomo austero, avesse forse esagerato le cose, ma che il consiglio di evitare l’estrema familiarità della mia superiora opponendole molto riserbo, fosse un consiglio da seguirsi. Mi ripromisi di farlo.
La mattina, allorché le monache vennero nel coro, mi trovarono al mio posto. Si accostarono tutte alla sacra mensa con la superiora in testa, il che finì di persuadermi della sua innocenza, senza peraltro indurmi a rinunciare alla decisione che avevo preso. E poi ero ben lontana dal sentire per lei l’attrazione che lei provava per me. Non potevo fare a meno di paragonarla alla mia prima superiora; che differenza! Non si ritrovava in lei né la stessa pietà, né la stessa gravità, né la stessa dignità, né lo stesso fervore, né lo stesso spirito, né la stessa inclinazione all’ordine.
Nello spazio di pochi giorni accaddero due grandi avvenimenti. Il primo, fu che vinsi il processo contro le monache di Longchamp; esse furono condannate a pagare al convento di Sant’Eutropio in cui mi trovavo una pensione proporzionata alla mia dote; il secondo, fu il cambiamento di direttore spirituale. Fu la superiora in persona che mi mise al corrente di quest’ultimo cambiamento.
Io, intanto, non andavo più da lei se non accompagnata, ed ella non veniva più da sola nella mia cella. Lei seguitava a cercarmi, ma io la evitavo; se ne accorgeva e me lo rimproverava. Non so che cosa stesse accadendo in quell’anima, ma doveva essere qualcosa di straordinario. Si alzava di notte e si aggirava per i corridoi; soprattutto nel mio; la sentivo passare e ripassare, fermarsi davanti alla mia porta, lamentarsi, sospirare. Tremavo, mi rincantucciavo nel letto. Di giorno, se ero alla passeggiata, nella stanza da lavoro o in quella della ricreazione, passava ore intere ad osservarmi, in modo che non potessi scorgerla. Spiava ogni mio movimento: se scendevo, la trovavo in fondo alle scale; quando risalivo, la trovavo in cima. Un giorno mi fermò; si mise a guardarmi senza dire una parola; un profluvio di lacrime le scorreva dagli occhi. Poi, all’improvviso, gettandosi a terra e stringendomi un ginocchio fra le mani, mi disse:
“Sorella crudele, chiedimi la vita e te la darò, ma non mi evitare così, non posso vivere senza di te...”
Il suo stato mi fece pietà; gli occhi le si erano spenti; aveva perduto il suo bell’aspetto florido e i suoi colori; era la mia superiora, era ai miei piedi, con la testa appoggiata sul mio ginocchio che teneva abbracciato. Le tesi le mani e lei le prese con slancio. Le baciava, poi mi guardava, poi tornava a baciarle e a guardarmi. La sollevai. Vacillava, camminava a fatica; la riaccompagnai nella sua cella. Quando la porta fu aperta, mi prese per la mano e mi tirò dolcemente per farmi entrare, ma senza parlarmi e senza guardarmi.
“No, cara madre,” le dissi, “no, me lo sono promesso; è meglio per voi e per me. Occupo troppo posto nella vostra anima e questo posto lo dovete tutto quanto a Dio.”
“Spetta a voi rimproverarmelo?”
Cercai, mentre le parlavo, di liberare la mia mano dalla sua.
“Non volete proprio entrare?” mi chiese.
“No, cara madre, no.”
“Non volete, suor Santa Susanna? Voi non sapete che cosa può derivarne, non sapete... Mi farete morire!”
Queste ultime parole mi ispirarono un sentimento del tutto diverso da quello che era nei suoi propositi; ritirai vivamente la mano e fuggii. La superiora si voltò, mi guardò per un po’ mentre me ne andavo, poi, rientrando nella sua cella la cui porta rimase aperta, proruppe in lamenti altissimi. La sentii, mi penetrarono nell’anima. Per un momento fui incerta se continuare ad allontanarmi, ma non fu senza soffrire dello stato in cui la lasciavo: per natura sono portata alla compassione. Mi rinchiusi nella mia cella; mi sentii a disagio. Non sapevo come occuparmi; camminai per un po’ in lungo e in largo, distrutta e turbata; uscii, rientrai; alla fine andai a bussare alla porta di suor Santa Teresa che era vicina alla mia. La trovai in conversazione intima con un’altra giovane monaca sua amica. Le dissi:
“Cara sorella, mi dispiace interrompervi, ma vi prego di ascoltarmi un istante perché avrei qualcosa da dirvi.”
Mi seguì nella mia cella, e io le dissi:
“Non so che cos’abbia la nostra madre superiora, ma è desolata; se andaste a trovarla, forse la consolereste.”
Non mi rispose; lasciò l’amica nella sua cella, chiuse la porta, e corse dalla nostra superiora.
Il male di quella donna andò tuttavia peggiorando di giorno in giorno; si fece malinconica e seria; la gioia che aveva sempre regnato nel convento dal giorno del mio arrivo, scomparve di colpo; tutto rientrò nell’ordine più austero. Gli uffizi si svolsero con la debita dignità; gli estranei furono quasi del tutto esclusi dal parlatorio; fu proibito alle monache di farsi visite reciproche nelle celle; gli esercizi ripresero osservando l’orario più scrupoloso; non vi furono più riunioni dalla superiora, più merende; le colpe più leggere furono severamente punite; talora ci si rivolgeva ancora a me per intercedere presso la superiora, ma io mi rifiutavo ostinatamente di farlo. La causa di una simile rivoluzione non fu ignorata da nessuno. Le anziane non ne erano affatto dispiaciute; le giovani se ne dispiacevano e mi guardavano di traverso. Quanto a me, tranquilla circa la mia condotta, non davo peso al loro malumore e ai loro rimproveri.
La superiora, che non potevo consolare, né impedirmi di compiangere, passò successivamente dalla malinconia alla devozione, e dalla devozione al delirio. Non starò a seguirla nelle diverse fasi di questi stati d’animo, perché dovrei scendere a particolari senza fine; vi dirò soltanto che nella prima fase ora mi cercava, ora mi evitava; a volte ci trattava, me e le altre, con la sua solita dolcezza; a volte passava improvvisamente al rigore più esagerato; ci chiamava le ci rimandava via; accordava la ricreazione e un momento dopo ne revocava l’ordine; ci faceva convocare nel coro e quando tutto il convento si era messo in moto per obbedirle, un secondo tocco di campana ci rinviava tutte nelle nostre celle. È difficile immaginare come fosse perturbata la nostra vita; la giornata trascorreva a uscire e a entrare nelle celle, a prendere il breviario e a riporlo; ad abbassare il velo e a rialzarlo. La notte conosceva gli stessi ritmi spezzati del giorno.
Alcune monache si rivolsero a me, e cercarono di farmi capire che con un po’ più di compiacenza e di riguardi per la superiora, tutto sarebbe rientrato nell’ordine (avrebbero dovuto dire nel disordine) solito; io rispondevo tristemente:
“Vi compiango, ma ditemi chiaramente che cosa debbo fare.”
Alcune se ne andavano a testa bassa senza rispondere; altre mi davano dei consigli che mi era impossibile conciliare con quelli del nostro direttore spirituale. Intendo dire di quello che era stato revocato, perché, quanto al suo successore, non lo avevamo ancora visto.
La superiora non usciva più di notte. Trascorreva settimane intere senza farsi vedere né all’uffizio, né in coro, né in refettorio, né alla ricreazione. Stava rinchiusa in camera sua; girava per i corridoi o scendeva in chiesa; andava a bussare alla porta delle sue monache e diceva con voce lamentosa:
“Suor tal dei tali, pregate per me; suor tal dei tali, pregate per me...”
Si sparse la voce che si disponesse a una confessione generale.
Un giorno che scesi per prima in chiesa, vidi un foglio fissato al velo della grata. Mi avvicinai e lessi:
“Care sorelle, siete invitate a pregare per una monaca che si è sviata dai propri doveri e che vuole tornare a Dio...”
Fui tentata di strappare quel foglio, ma poi lo lasciai. Qualche giorno dopo ce n’era un altro che diceva:
“Care sorelle, siete invitate a implorare la misericordia di Dio su una monaca che ha riconosciuto il proprio traviamento. Esso è grande...”
Un altro giorno fu la volta di un invito che diceva:
“Care sorelle, siete pregate di chiedere a Dio di allontanare la disperazione da una monaca che ha perduto ogni fiducia nella misericordia divina...”
Tutti questi inviti in cui venivano descritte le crudeli vicissitudini di quell’anima in pena mi rattristavano profondamente. Una volta mi capitò di rimanere lì impalata davanti a quegli scritti. Dentro di me mi ero chiesta che cosa fossero quei traviamenti che si rimproverava, da dove venissero le angosce di quella donna, quali colpe potesse avere da rimproverarsi; ripensavo alle esclamazioni del direttore spirituale, ricordavo le sue espressioni, ne cercavo il senso che non trovavo e rimanevo come assorta. Alcune monache che mi guardavano, parlottavano fra di loro, e se non mi sono ingannata, mi guardavano come se stessi per essere minacciata dagli stessi terrori.
La povera superiora non si faceva vedere che con il velo calato sul viso; non si occupava più della direzione del convento; non parlava più a nessuno; si intratteneva spesso con il nuovo direttore spirituale che ci era stato assegnato. Era un giovane benedettino. Non so se fosse stato lui a imporle tutte le mortificazioni che lei praticava: digiunava tre giorni alla settimana; si flagellava; ascoltava l’uffizio stando negli stalli inferiori. Per andare in chiesa dovevamo passare davanti alla sua porta; qui, la trovavamo prosternata, con il viso a terra, e si rialzava solo quando non c’era più nessuno; di notte, scendeva in chiesa in camicia e a piedi nudi; se per caso suor Santa Teresa e io la incontravamo, lei si voltava e incollava il viso al muro. Un giorno che uscivo dalla mia cella, la trovai prosternata, con le braccia stese e il viso contro terra. Mi disse:
“Venite avanti, camminate, calpestatemi, non merito altro trattamento.”
Per tutti i mesi che durò quella malattia, il resto della comunità ebbe tutto il tempo di patirne e di prendermi in avversione. Non starò a tornare su tutti gli affanni di una monaca odiata nel proprio convento: ormai dovete saperne abbastanza. A poco a poco sentii rinascere il disgusto del mio stato. Quel disgusto e quelle mie pene le andai a riversar nel cuore del nuovo direttore spirituale. Si chiama don Morel: è un uomo di carattere ardente; aveva all’incirca quarant’anni. Mi sembrò che ascoltasse con attenzione e interesse. Volle conoscere le vicissitudini della mia vita; mi fece entrare nei particolari più minuziosi sulla mia famiglia, sulle mie inclinazioni, sul mio carattere, sui conventi nei quali ero stata, su quello che c’era stato tra me e la superiora. Non gli nascosi niente. Non mi sembrò che annettesse al comportamento della superiora nei miei riguardi la stessa importanza del padre Lemoine; fu molto se sull’argomento pronunciò qualche parola: considerò quella faccenda come finita. Quello che lo interessava maggiormente erano le mie disposizioni segrete nei confronti della vita religiosa. Via via che mi aprivo con lui, la sua confidenza faceva gli stessi progressi. Io mi confessavo a lui, e lui si confessava a me. Ciò che mi raccontava delle sue sofferenze coincideva perfettamente con le mie; era entrato in religione suo malgrado, sopportava il suo stato con un disgusto simile al mio.
“Che fare, cara sorella?” mi diceva, “vi è una sola risorsa: rendere la nostra condizione meno penosa possibile.” Poi dava a me gli stessi consigli che seguiva lui: consigli saggi.
“In questo modo,” soggiungeva, “non si evitano le sofferenze, ci si risolve soltanto a sopportarle. Le persone religiose non sono felici che in quanto si fanno un merito delle loro croci davanti a Dio; in tal caso se ne rallegrano, vanno in cerca delle mortificazioni: più queste sono amare e frequenti, più se ne compiacciono. Hanno scambiato la loro felicità presente con una felicità futura; si assicurano questa felicità con il sacrificio volontario di quella. Quando hanno sofferto molto, dicono: “Amplius, Domine, ancora di più, Signore”, ed è una preghiera che Dio non manca mai di esaudire. Ma se i loro patimenti sono fatti per voi e per me, come per loro, noi non possiamo permetterci la stessa ricompensa; noi non abbiamo la sola cosa che conferirebbe ad essi un valore, la rassegnazione. E questo è triste. Ahimé, come farò ad ispirarvi la virtù che vi manca e che io non ho! Eppure, senza di essa, ci esponiamo al rischio di essere perduti nell’altra vita dopo essere stati molto infelici in questa. In mezzo alle penitenze noi ci danniamo quasi con la stessa certezza della gente che vive tra i piaceri del mondo. Noi ci priviamo, loro godono, e dopo questa vita ci attendono gli stessi supplizi. Com’è penosa la condizione di chi è costretto alla vita religiosa, uomo o donna che sia, senza vocazione! Tuttavia è la nostra condizione, e non possiamo cambiarla. Ci hanno caricato di pesanti catene che siamo condannati a scuotere senza posa, senza nessuna speranza di spezzarle; cercheremo, cara sorella, di trascinarle. Andate. Tornerò a trovarvi.”
Tornò pochi giorni dopo. Lo vidi in parlatorio; lo osservai più da vicino. Terminò di confidarmi la sua vita, io la mia: un’infinità di circostanze che costituivano tra me e lui altrettanti punti di contatto e di somiglianza; aveva subito le stesse persecuzioni domestiche e religiose. Non mi rendevo conto che la descrizione del suo disgusto era poco adatta a dissipare il mio; ciò nonostante un tale effetto si stava verificando in me, e credo che la descrizione dei miei disgusti non agisse su di lui in maniera diversa. Fu così che aggiungendosi alla somiglianza dei caratteri quella delle nostre vicende, più ci vedevamo, più ci piacevamo l’uno all’altro; la storia dei suoi momenti, era la storia dei miei; la storia dei suoi sentimenti, era la storia dei miei; la storia della sua anima, era la storia della mia.
Dopo che c’eravamo intrattenuti a lungo su di noi, parlavamo anche degli altri, e soprattutto della superiora. La sua qualità di direttore spirituale lo rendeva molto riservato; sennonché, dai suoi discorsi, intuii che lo stato d’animo attuale di quella donna non sarebbe durato, che ella lottava contro se stessa, ma invano, e che sarebbe accaduta una di queste due cose: o fra non molto sarebbe tornata alle sue tendenze precedenti, oppure le avrebbe dato di volta il cervello. Ero molto curiosa di saperne di più. Avrebbe ben potuto illuminarmi su tutti gli interrogativi che mi ero posta senza potervi mai rispondere, ma non osavo fargli domande; mi azzardai soltanto a chiedergli se conosceva il padre Lemoine.
“Sì,” mi disse, “lo conosco; è un uomo di merito, e ne ha molto.”
“Abbiamo cessato di vederlo fra noi da un momento all’altro.”
“È vero.”
“Non potreste dirmi come è accaduto?”
“Mi dispiacerebbe se si venisse a sapere.”
“Potete contare sulla mia discrezione.”
“Credo che abbiano scritto contro di lui all’arcivescovado.”
“E che cosa possono mai aver detto?”
“Che abitava troppo lontano dal convento, che non lo si poteva avere quando lo si voleva, che era di morale troppo austera, che vi erano buone ragioni per sospettarlo di sentimenti innovatori, che seminava la discordia nel convento e che allontanava gli animi delle monache dalla loro superiora.”
“Da chi lo avete saputo?”
“Me l’ha detto lui stesso.”
“Allora, lo vedete?”
“Sì, lo vedo. Qualche volta mi ha parlato di voi.”
“Che cosa vi ha detto?”
“Che eravate molto da compiangere, che non riusciva a capire come aveste resistito a tutte le pene che avete sofferto, che sebbene avesse avuto l’occasione di parlare con voi soltanto una volta o due, non credeva che vi sareste mai potuta adattare alla vita religiosa, che aveva in mente...”
A questo punto si fermò di botto, ed io aggiunsi:
“Che cosa avete in mente?”
Don Morel mi rispose:
“Si tratta di una confidenza troppo particolare perché io possa continuare.”
Non insistei ulteriormente e mi limitai a soggiungere:
“È vero che è stato il padre Lemoine a ispirarmi ripugnanza per la mia superiora.”
“Ha fatto bene.”
“Perché?”
“Sorella,” mi disse assumendo un’aria grave, “attenetevi ai suoi consigli e cercate di ignorarne la ragione finché vivrete.”
“Mi sembra però che se conoscessi il pericolo, potrei stare più attenta ad evitarlo.”
“Potrebbe anche essere il contrario.”
“Dovete proprio avere una cattiva opinione di me.”
“Dei vostri costumi e della vostra innocenza, ho l’opinione che debbo averne, ma credete a me: vi sono delle cognizioni funeste che non potreste acquisire senza rimetterci. È stata proprio la vostra innocenza a incutere rispetto alla vostra superiora; se foste stata più scaltrita, vi avrebbe rispettato di meno.”
“Non vi capisco.”
“Tanto meglio.”
“Ma che cosa ci può essere di pericoloso per una donna, nelle carezze di un’altra donna?”
Nessuna risposta da parte di Don Morel.
“Non sono forse la stessa di quando entrai qua dentro?”
Nessuna risposta da parte di Don Morel.
“Non avrei continuato ad essere la stessa? Dov’è il male nell’amarsi, nel dirselo, nel testimoniarselo? È una cosa tanto dolce!”
“È vero,” ammise Don Morel alzando su di me gli occhi che aveva sempre tenuto bassi mentre io parlavo.
“E questa è dunque una cosa tanto diffusa nei conventi? Povera superiora! In che stato è ridotta!”
“È davvero penoso, e temo che peggiorerà. Non era fatta per lo stato religioso, ed ecco quello che capita prima o poi. Quando ci si oppone all’inclinazione generale della natura, questa viene traviata dalla costrizione verso affetti sregolati, tanto più violenti in quanto non hanno fondamento; è una specie di pazzia.”
“È pazza?”
“Si, lo è, e sempre più lo diventerà.”
“E voi credete che questa sia la sorte di tutti coloro che hanno accettato uno stato al quale non erano chiamati?”
“No, non tutti. Ve ne sono che muoiono prima, ve ne sono altri il cui carattere docile alla lunga finisce per adattarsi, e altri ancora sorretti per un certo tempo da qualche vaga speranza.”
“E quali speranze ci sono per una monaca?”
“Quali? In primo luogo quella di far rescindere i voti.”
“E quando si è perduta questa speranza?”
“Rimane quella di trovare un giorno le porte aperte; o la speranza che gli uomini rinuncino alla stravaganza di far rinchiudere in sepolcri giovani creature piene di vita, e che i conventi siano aboliti; la speranza che il convento prenda fuoco, che crollino i muri della clausura, che qualcuno venga in aiuto. Tutte queste supposizioni si accavallano nella mente; passeggiando in giardino si guarda, senza pensarci, se i muri sono molto alti; se si è nella cella, si afferrano le sbarre della grata e si scuotono piano, distrattamente; se la finestra dà sulla strada, si guarda in basso; se si sente passare qualcuno, il cuore comincia a battere, si sogna sordamente un liberatore; se scoppia un tumulto e il clamore penetra fin nel convento, si spera; si conta su una malattia che ci farà avvicinare a un uomo, o che ci farà partire per una cura delle acque.”
“È vero, è vero!” esclamai, “voi mi leggete in fondo al cuore; mi sono fatta, mi farò continuamente delle illusioni.”
“E quando, riflettendovi, si arriva a perderle, giacché quei vapori salutari che salgono dal cuore alla ragione, ogni tanto si dissipano, allora si vede tutta la profondità della propria miseria; si piange, si geme, si grida, si sente l’approssimarsi della morte. Allora c’è chi corre a buttarsi ai ginocchi della superiora per cercare da lei qualche consolazione; c’è chi si prosterna nella cella o ai piedi dell’altare e chiama in aiuto il cielo; ve ne sono alcune che si stracciano gli abiti e si strappano i capelli; altre cercano un pozzo profondo, finestre molto alte, un cappio, e capita che lo trovino; altre, dopo essersi tormentate a lungo, piombano in una specie di abbrutimento e restano come inebetite; altre, la cui costituzione è debole e delicata si consumano di languore; in altre ancora l’organismo si sconvolge, l’immaginazione si perturba e finiscono col diventare furiose. Le più felici sono quelle in cui le illusioni consolanti rinascono e le cullano quasi fino alla tomba; la loro vita trascorre nell’alternativa dell’errore e della disperazione.”
“E le più infelici,” aggiunsi io emettendo apertamente un profondo sospiro “quelle che passano successivamente attraverso tutti questi stadi... Ah, padre mio, come mi dispiace avervi ascoltato!”
“E perché?”
“Io non mi conoscevo; ora mi conosco. Le mie illusioni dureranno meno. Nei momenti...”
Stavo per continuare allorché entrò un’altra monaca, poi un’altra, e poi una terza, e poi quattro, cinque, sei, non so più quante. La conversazione si fece generale. Alcune guardavano il direttore spirituale; altre lo ascoltavano in silenzio e con gli occhi bassi; diverse lo interrogavano tutte insieme, tutte si estasiavano sulla saggezza delle sue risposte. Intanto io mi ero ritirata in un angolo dove mi lasciai andare ad una fantasticheria profonda. Nel bel mezzo di tutte quelle conversazioni in cui ciascuna cercava di farsi valere e di attirare la preferenza del sant’uomo con il suo aspetto migliore, si sentì arrivare qualcuno a passi lenti, fermarsi a tratti, ed emettere dei sospiri. Ascoltammo. Una monaca disse a bassa voce:
“È lei, è la nostra superiora.”
Poi ci fu silenzio e tutte quante si sedettero in cerchio. Era lei infatti. Entrò: il velo le ricadeva fino alla cintura; teneva le braccia incrociate sul petto e la testa reclina. Fui la prima ch’ella scorse; subito dal velo trasse una mano con la quale si coprì gli occhi, e volgendosi un po’ di lato, con l’altra mano ci fece segno a tutte di uscire. Uscimmo in silenzio, e lei rimase sola con Don Morel.
Prevedo, signor marchese, che vi farete una cattiva opinione di me, ma poiché non mi sono vergognata affatto di ciò che ho compiuto, perché dovrei arrossire nel confessarlo? E poi, come sopprimere in questo racconto un avvenimento che non ha mai cessato di avere delle conseguenze? Diciamo allora che ho una mentalità piuttosto strana; quando le cose possono suscitare la vostra stima o accrescere la vostra commiserazione, io posso scrivere bene o male, ma con una rapidità e una facilità incredibili; l’anima mia è gaia, l’espressione mi viene senza fatica, le lacrime mi scorrono con dolcezza, mi sembra che voi siate presente, che vi veda, e che voi mi ascoltiate. Se invece sono costretta a mostrarmi ai vostri occhi sotto una luce sfavorevole, penso con difficoltà, l’espressione mi sfugge, la penna non corre, perfino il carattere della mia scrittura ne risente, e se continuo, e solo in quanto segretamente spero che voi non leggerete quei passi. Eccone uno:
Allorché tutte le nostre sorelle se ne furono andate... “Ebbene, che faceste?”
Non lo indovinate? No, siete un uomo troppo onesto per questo... Ridiscesi in punta di piedi e andai a mettermi piano piano dietro la porta del parlatorio per ascoltare quello che si diceva là dentro. Molto male, direte voi... Oh, quanto a questo, feci molto male, lo dico anch’io a me stessa; e il mio turbamento, le precauzioni che presi perché non mi vedessero, il numero di volte che mi fermai, la voce della mia coscienza che ad ogni passo mi intimava di tornare indietro, non mi permettevano di avere dubbi. Ciò nonostante la curiosità fu più forte, e andai... Ma se fu male essere stata a spiare i discorsi di due persone che si credevano sole, non è neanche peggio riferirveli? Questa è ancora una di quelle cose che scrivo perché mi illudo che non le leggerete; so bene che non è vero, ma debbo convincermene.
La prima parola che udii dopo un silenzio alquanto lungo, mi fece fremere: “Padre, sono dannata...” [23]
Ripresi coraggio. Ascoltavo, e il velo che fino a quel momento mi aveva tenuto nascosto il pericolo che avevo corso, si stava lacerando, allorché mi chiamarono. Dovevo andare, andai. Ma, ahimè! avevo ascoltato anche troppo. Che donna, signor marchese, che donna abominevole...
A questo punto le memorie di suor Susanna si interrompono. Quelle che seguono non sono più che brevi annotazioni di ciò che probabilmente si riprometteva di raccontare successivamente. Pare che la superiora sia impazzita e che i frammenti che riporterò debbano essere riferiti a quella sua sciagurata condizione.
Dopo la confessione, godemmo di qualche giorno di serenità. La gioia ricompare nella comunità e mi vengono rivolti rallegramenti che io respingo con indignazione.
La superiora non mi sfuggiva più, mi guardava, ma la mia presenza non aveva più l’aria di turbarla.
Io mi sforzavo di nasconderle l’orrore che mi ispirava da quando, per una fortunata e fatale curiosità, avevo imparato a conoscerla meglio.
Ben presto si fa silenziosa; non dice più che sì o no; passeggia da sola.
Rifiuta il cibo. Il sangue le si accende, la febbre l’assale e alla febbre succede il delirio.
Sola, nel suo letto, mi vede, mi parla, mi invita ad avvicinarsi, mi rivolge le espressioni più tenere.
Se sente camminare intorno alla sua camera, esclama:
“È lei che passa, riconosco il suo passo, lo riconosco. Chiamatela... No, no, lasciatela andare.”
La cosa strana è che non le capitava mai di sbagliarsi e di scambiarmi con un’altra.
Rideva fragorosamente e un momento dopo si scioglieva in lacrime. Le nostre suore la circondavano in silenzio e alcune piangevano con lei.
D’un tratto diceva:
“Non sono stata in chiesa, non ho pregato Dio. Voglio alzarmi da questo letto; voglio vestirmi, vestitemi.”
Se si opponevano, soggiungeva:
“Datemi almeno il mio breviario.”
Glielo davano; lei lo apriva, ne sfogliava le pagine col dito e continuava a voltarle anche quando non ve n’erano più. I suoi occhi erano smarriti.
Una notte, scese da sola in chiesa; alcune suore la seguirono. Si prosternò sui gradini dell’altare, si mise a gemere, a sospirare, a pregare ad alta voce. Uscì; tornò dentro; disse:
“Andate a cercarla; è un’anima così pura, così innocente! Se unisse le sue preghiere alle mie...”
Poi, rivolgendosi a tutta la comunità e voltandosi verso gli stalli che erano vuoti, esclamava:
“Uscite, uscite tutte! che rimanga sola con me. Non siete degne di avvicinarvi a lei; se le vostre voci si confondessero con la sua, il vostro incenso profano corromperebbe dinanzi a Dio la dolcezza del suo. Allontanatevi, allontanatevi...”
Poi mi esortava a chiedere al cielo assistenza e perdono. Vedeva Dio; le sembrava che il cielo fosse solcato di lampi, che si squarciasse, e le tuonasse sulla testa, ne scendevano angeli corrucciati, gli sguardi della Divinità la facevano tremare; correva per ogni dove, si rincantucciava negli angoli bui della chiesa, chiedeva perdono, si metteva con la faccia a terra, e si assopiva in questa posizione, dove l’aveva sorpresa la freschezza umida del luogo. Allora la trasportavano come morta nella cella.
L’indomani ella non sapeva nulla della scena terribile della notte. Diceva:
“Dove sono le nostre sorelle? Non vedo più nessuno; sono rimasta sola in questo convento; mi hanno abbandonata tutte quante, anche suor Santa Teresa. Hanno fatto bene. Dal momento che suor Santa Susanna non c’è più, posso uscire. Non l’incontrerò più. Ah, se la incontrassi! Ma lei non c’è più, vero? Non è forse vero che lei non c’è più?... Fortunato il convento che la ospita! Dirà tutto alla nuova superiora: che penserà di me?... Suor Santa Teresa è forse morta? Ho sentito suonare a morto tutta la notte. Povera figliola! È perduta per sempre! e sono stata io, sono stata io... Un giorno le sarò messa a confronto; che cosa le dirò? Che cosa le risponderò?... Sventura a lei! Sventura a me !”
Un’altra volta diceva:
“Sono tornate le nostre sorelle? Dite loro che sono molto malata... Sollevate il mio guanciale... Slacciatemi... Sento qualcosa che mi opprime... Mi brucia la testa, toglietemi la cuffia... Mi voglio lavare... Portatemi dell’acqua. Versate, versate ancora... Sono bianche, ma la sozzura dell’anima è rimasta... Vorrei essere morta; vorrei non essere nata... almeno non l’avrei vista.”
Una mattina fu trovata a piedi nudi, in camicia, scarmigliata, urlante, con la schiuma alla bocca, mentre correva intorno alla sua cella, con le mani sulle orecchie, gli occhi chiusi e il corpo schiacciato contro il muro.
“Allontanatevi da questa voragine! Le sentite queste grida? È l’inferno! Salgono da quest’abisso profondo delle fiamme ch’io vedo; dalle fiamme sento venire voci confuse che mi chiamano... Mio Dio, abbiate pietà di me! Presto, andate, suonate, riunite la comunità; dite che preghino per me, anch’io pregherò... Ma spunta appena il giorno, le nostre sorelle dormono. Non ho chiuso occhio per tutta la notte, vorrei dormire, e non ci riesco...”
Una delle nostre sorelle le diceva:
“Signora, c’è qualcosa che vi tormenta; confidatemela, forse ne avrete qualche sollievo.”
“Suor Agata, ascoltate, avvicinatevi... di più... ancora di più... non ci devono sentire; ora vi rivelerò tutto, tutto, ma serbatemi il segreto... L’avete vista?”
“Chi, signora?”
“Non è vero che nessuna ha la stessa dolcezza? Che andatura! Che decoro! E quanta nobiltà! Quanta modestia!... Andate da lei, ditele... No, non dite niente, non andate, non la potreste avvicinare... Gli angeli del cielo la custodiscono, vegliano su di lei; io li ho visti, li vedreste anche voi, ne sareste spaventata come me. Restate... Se andaste, che cosa le direste? Inventate qualcosa di cui non debba arrossire...”
“Ma signora, se consultaste il nostro direttore...”
“Sì, ma sì... No, no, tanto lo so quello che mi dirà; l’ho sentito mille volte... Di che cosa gli parlerei? Se potessi perdere la memoria!... Se potessi rientrare nel nulla, o rinascere! Non chiamate il direttore spirituale. Preferirei che mi venisse letta la passione di nostro Signore Gesù Cristo. Leggete... Cominciò a respirare... Basta una goccia di quel sangue per purificarmi... Guardate, sgorga ribollendo dal suo costato... Inclinate quella sacra piaga sulla mia testa... Il suo sangue scorre su di me e non vi rimane... Sono perduta!... Allontanate questo crocifisso... Riportatemelo...”
Le veniva riportato; se lo stringeva fra le braccia, lo baciava da ogni parte, e poi aggiungeva:
“Sono i suoi occhi, è la sua bocca; quando la rivedrò? Suor Agata, ditele che l’amo, descrivetele il mio stato, ditele ch’io muoio.”
Fu salassata, le fecero fare dei bagni, ma i rimedi sembrava che accrescessero il suo male. Non oso descrivervi tutte le azioni indecenti da lei compiute, ripetervi tutti i discorsi disonesti che le sfuggivano nel delirio. Ad ogni istante si portava la mano alla fronte come per scacciarne idee confuse, immagini, chissà quali immagini! Riaffondava la testa nel letto, si copriva il viso con il lenzuolo.
“È il tentatore,” diceva, “è lui. Che forma strana ha assunto! Prendete dell’acqua benedetta, gettate dell’acqua benedetta su di me... Basta, basta, non c’è più!”
Non si tardò a segregarla, ma dalla sua prigione per quanto ben sorvegliata, un giorno riuscì a fuggire. Si era stracciata le vesti, si aggirava tutta nuda per i corridoi, dalle braccia le pendevano i capi della corda spezzata. Gridava:
“Sono la vostra superiora, tutte ne avete fatto giuramento, obbeditemi! Mi avete imprigionata; sciagurate, ecco qual è la ricompensa per la mia bontà! Mi offendete perché sono troppo buona; non lo sarò più... Al fuoco!... All’assassino!... Al ladro!... Aiuto!... A me, suor Teresa... A me, suor Susanna!”
Intanto l’avevano riafferrata e la riportavano nella sua prigione; e lei diceva:
“Avete ragione, avete ragione; ahimè! sono diventata pazza, lo sento.”
Talvolta sembrava ossessionata dallo spettacolo dei vari supplizi. Vedeva donne con la corda al collo o le mani legate dietro la schiena; ne vedeva altre con le torce in mano; si univa a quelle che facevano onorevole ammenda; si credeva condotta a morte; diceva al boia:
“Ho meritato la mia sorte, l’ho meritata... Se almeno questo supplizio fosse l’ultimo; ma un’eternità! Un’eternità di fiamme!...”
Non dico niente che non sia vero; e tutto quello che dovrei ancora dire di vero non mi torna in mente, o arrossirei se ne insozzassi queste pagine.
Dopo aver vissuto per diversi mesi in quello stato miserando, la superiora morì. Che morte, signor marchese! Io l’ho vista la terribile immagine della disperazione e del peccato all’ora suprema. Si credeva attorniata da spiriti infernali che aspettavano la sua anima per impadronirsene; diceva con voce soffocata:
“Eccoli! Eccoli!...” e opponendo loro a destra e a sinistra un crocifisso che teneva in mano, urlava, gridava:
“Mio Dio!... Mio Dio!...”
Suor Teresa la seguì poco tempo dopo, e noi avemmo un’altra superiora anziana, lunatica e superstiziosa.
Mi accusano di aver stregato la superiora che l’ha preceduta; ella lo crede, e le mie pene si rinnovano.
Anche il nuovo direttore spirituale è perseguitato dai suoi superiori; e mi persuade a fuggire dal convento.
La mia fuga è progettata. Esco in giardino tra le undici e mezzanotte. Mi lanciano delle corde, io me le lego intorno alla persona. Le corde si spezzano, e io cado; ho le gambe tutte scorticate e una violenta contusione alle reni. Un secondo, un terzo tentativo mi consentono di issarmi sulla sommità del muro; scendo. Quale è mai la mia sorpresa! Invece di una sedia di posta dove speravo di essere accolta, trovo una sgangherata carrozza pubblica. Eccomi sulla via di Parigi con un giovane benedettino. Non tardai ad accorgermi, dal tono indecente che prendeva e dalle libertà che si permetteva, che non osservava con me nessuna delle condizioni che avevo convenuto. Allora rimpiansi la mia cella e sentii tutto l’orrore della mia situazione.
È a questo punto che descrivo la scena della carrozza. Che scena! Che uomo! Grido; il vetturino viene in mio aiuto. Rissa violenta tra il vetturino e il monaco.
Arrivo a Parigi. La carrozza si ferma in una vicolo, davanti a una porta stretta che si apre su un viale buio e sporco. La padrona di casa mi viene incontro e mi sistema all’ultimo piano in cui trovo appena i mobili indispensabili. Ricevo alcune visite della donna che occupa il primo piano.
“Siete giovane, vi dovete annoiare, signorina. Scendete da me, vi troverete in buona compagnia, uomini e donne; non tutte le donne sono carine come voi, ma quasi altrettanto giovani.
“Si parla, si gioca a carte; si balla; ci divertiamo in cento modi. Se fate girare la testa di tutti i nostri cavalieri, vi giuro che le nostre signore non ne saranno gelose, né dispiaciute. Venite, signorina...”
Colei che mi parlava così era una donna di una certa età, dallo sguardo tenero, la voce dolce e la parola insinuante.
Trascorro una quindicina di giorni in quella casa, esposta a tutte le profferte del mio perfido rapitore e a tutte le scene tumultuose di una casa equivoca, pronta, ad ogni istante, a cogliere l’occasione di scappare.
Finalmente, un giorno, l’occasione si presentò. Era notte inoltrata.
Se fossi stata vicina al convento, vi sarei tornata subito. Corro senza sapere dove vado. Alcuni uomini mi fermano; sono presa dal panico, cado svenuta sulla soglia della bottega di un candeliere. Mi soccorrono. Quando riprendo i sensi, mi trovo distesa su un giaciglio, circondata da diverse persone. Mi chiedono chi sono; non so che cosa risposi. Mi fanno riaccompagnare dalla domestica di casa; la prendo sottobraccio, camminiamo insieme.
Avevamo già percorso un bel pezzo di strada, quando quella ragazza mi chiese:
“Signorina, sapete di preciso dove stiamo andando?”
“No, figliola mia; all’ospizio, penso.”
“All’ospizio? Vi hanno forse cacciata di casa?”
“Ahimè, sì.”
“Che cosa avete mai fatto per essere cacciata a quest’ora?... Ma eccoci alla porta di Santa Caterina; vediamo un po’ se riusciamo a farci aprire; in ogni modo, non abbiate paura; non resterete per la strada, dormirete con me.”
Torno dal candeliere. Spavento della domestica nel vedere le mie gambe scorticate per la caduta fatta scappando dal convento. Trascorro la notte con lei. La sera del giorno successivo, torno a Santa Caterina. Vi rimango tre giorni, trascorsi i quali mi viene annunciato che, o debbo andare all’ospizio generale, o accettare il primo lavoro che mi capiterà.
Pericolo corso a Santa Caterina da parte di uomini e di donne; da quello che poi ho saputo è lì che vanno a rifornirsi i libertini e le ruffiane della città. La prospettiva della miseria non rese più persuasive le seduzioni alle quali fui esposta. Vendo i miei panni vecchi e ne scelgo di più adatti alla mia condizione.
Entro al servizio di una lavandaia, presso la quale mi trovo tuttora. Mi danno la biancheria, e io la stiro. La mia giornata è faticosa; sono mal nutrita, male alloggiata, ho un letto scomodo, ma in compenso sono trattata con umanità. Il marito è vetturino di piazza; la moglie è di maniere un po’ brusche, ma in fondo è una buona donna. Sarei abbastanza contenta della mia sorte, se potessi sperare di goderne tranquillamente.
Sono venuta a sapere che la polizia aveva preso il mio rapitore e l’aveva consegnato nelle mani dei suoi superiori. Pover’uomo! È da compiangersi più di me. Il suo tentativo di aggressione ha fatto scalpore, e non sapete con quale crudeltà i religiosi puniscono gli scandali; una segreta sarà la sua dimora per il resto dei suoi giorni; è la sorte che aspetta anche me se vengo ripresa, ma lui ci vivrà più a lungo di me.
Il dolore della mia caduta si fa sentire. Ho le gambe gonfie e non posso fare un passo. Lavoro seduta, perché farei fatica a stare in piedi. Ciò nonostante temo il momento della mia guarigione: che pretesto avrò allora per non uscire? E a quali pericoli mi esporrei, facendomi vedere? Ma per fortuna ho ancora tempo davanti a me.
La mia famiglia, che non può avere alcun dubbio sulla mia presenza a Parigi, fa sicuramente tutte le perquisizioni immaginabili. Avevo deciso di far venire il signor Manouri nella mia soffitta, di chiedere e seguire i suoi consigli, ma non era più di questo mondo.
Vivo in un continuo allarme. Al minimo rumore che sento in casa, per le scale, nella strada, mi prende il terrore, tremo come una foglia, i ginocchi si rifiutano di reggermi e il lavoro mi cade dalle mani.
Trascorro quasi tutte le notti senza chiudere occhio; se dormo, mi sveglio di continuo; parlo, chiamo, grido. Non riesco a immaginare come quelli che mi circondano non mi abbiano ancora scoperta.
Sembra che la mia evasione sia di dominio pubblico. Me l’aspettavo. Una delle mie compagne me ne parlava ieri aggiungendovi circostanze odiose e quel genere di riflessioni che suscitano desolazione. Per fortuna stava stendendo sulle corde la biancheria bagnata e non ha potuto rendersi conto del mio turbamento. La padrona, invece, avendo notato che piangevo, mi ha detto:
“Che cosa avete, Maria?”
“Niente,” le ho risposto.
“Ma come?” ha soggiunto, “sareste tanto sciocca da impietosirvi su una cattiva monaca scostumata, senza religione, che aveva un amorazzo con un frataccio col quale scappa dal convento? Dovreste proprio avere compassione da buttar via. Non aveva che da bere, mangiare, pregare Dio, e dormire; stava bene dov’era; perché non c’è rimasta? Se fosse stata soltanto tre o quattro volte al fiume col tempo che fa, si sarebbe riconciliata col suo stato.”
Al che ho risposto che si conoscono bene soltanto i propri patimenti. Avrei fatto bene a starmene zitta, perché lei non avrebbe concluso: “Andiamo, andiamo... è una svergognata che Dio punirà!”
A queste parole ho chinato la testa sul tavolo, e così sono rimasta fino a che la mia padrona non mi ha detto:
“Ora vi siete messa a sognare, Maria? Mentre dormite, il lavoro non va avanti.”
Non ho mai avuto la vocazione per il chiostro, e si vede abbastanza chiaramente dal mio comportamento. Ciò non toglie che in convento mi sia abituata a certe pratiche che ripeto macchinalmente. Suona una campana? Mi faccio il segno della croce, oppure mi inginocchio. Bussano alla porta? Dico Ave. Mi chiedono qualcosa? La mia risposta finisce sempre con un sì o con un no, cara madre o sorella. Se sopraggiunge un estraneo, le braccia mi si incrociano sul petto e invece di fare la riverenza, mi inchino. Le mie compagne si mettono a ridere e credono che mi diverta ad imitare la monaca; ma è impossibile che continuino nell’errore; le mie storditaggini mi scopriranno, e io sarò perduta.
Signore, sbrigatevi a venire in mio aiuto. Voi certamente mi direte: “Ditemi che cosa posso fare per voi.” Ecco qui: non ho grandi ambizioni. Mi ci vorrebbe un posto di cameriera o di guardarobiera, o anche di semplice domestica, purché viva ignorata in campagna, in fondo a una provincia, in casa di gente dabbene, che non ricevesse molto. Non importa il salario; mi bastano sicurezza, riposo, pane e acqua. Potete esser certo che saranno soddisfatti del mio servizio; in casa di mio padre ho imparato a lavorare, in convento a obbedire. Sono giovane, ho un carattere mite. Quando le gambe mi saranno guarite, avrò più forza di quanta ne occorra per fare il mio lavoro. So cucire, filare, ricamare, lavare. Quando non ero ancora in convento, accomodavo da sola i miei merletti, e farò presto a rimettermici; non sono maldestra in nulla, e saprò abbassarmi a qualunque lavoro. Ho una buona voce, conosco la musica e so suonare discretamente il clavicembalo, quanto basta per divertire qualche madre che se ne dilettasse; e potrei anche dare lezioni ai suoi figli. Quantunque avrei timore di essere tradita da questi segni di un’educazione ricercata. Se dovessi imparare a pettinare, ho un certo gusto, prenderci un maestro, e non mi ci vorrebbe molto ad acquisire questa piccola arte. Signore, una condizione sopportabile, se possibile, o una condizione qualsiasi, è tutto quello che mi occorre, e non desidero niente di più. Voi potete rispondere dei miei costumi; nonostante le apparenze, sono una fanciulla dabbene; sono anche devota. Ah, signore! tutti i miei mali sarebbero ormai finiti, e non avrei più nulla da temere dagli uomini, se Dio non mi avesse fermata. Quel pozzo profondo, là in fondo al giardino del convento, quante volte l’ho visitato! Se non mi ci sono buttata dentro, è perché mi lasciavano tutta la libertà di farlo. Ignoro quale sia il destino che mi è riservato, ma se un giorno dovessi tornare in un convento, qualunque fosse, non rispondo di niente: ci sono pozzi dappertutto. Signore, abbiate pietà di me, e non preparate a voi stesso lunghi rimorsi.
P.S. Sono esausta dalla stanchezza, circondata dal terrore. Non dormo più. Queste memorie che scrivevo precipitosamente, le ho appena rilette a mente fresca, e mi sono accorta che senza averne avuto la minima intenzione, ad ogni riga mi sono mostrata, infelice come realmente ero, ma molto più gradevole di quanto non sia. Sarà forse perché noi riteniamo gli uomini meno sensibili alla descrizione delle nostre sofferenze che all’immagine delle nostre attrattive, e ci ripromettiamo maggior felicità nel sedurli che nel commuoverli? Li conosco troppo poco e non mi sono mai studiata abbastanza per saperlo. E se nondimeno il marchese, al quale si attribuisce il tatto più delicato, giungesse a persuadersi che non alla sua beneficenza, bensì alle sue debolezze io mi rivolgo, che cosa penserebbe di me? Questa riflessione è per me motivo di inquietudine. In verità avrebbe torto, se imputasse a me personalmente un istinto che è proprio di tutto il mio sesso. Sono una donna, forse un tantino civetta, come posso saperlo? Ma con tutta naturalezza e senza artificio alcuno.
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Langre, Francia, 1713-París, 1784) Filósofo y escritor francés. Fue el hijo mayor de un acomodado cuchillero, cuyas virtudes burguesas de honradez y amor al trabajo había de recordar más tarde con admiración. A los diez años ingresó en el colegio de los jesuitas en Langres y en 1726 recibió la tonsura por imposición de su familia con el propósito -luego frustrado- de que sucediera como canónigo a un tío materno. En 1728 marchó a París para continuar sus estudios; por la universidad parisiense se licenció en artes en 1732, e inició entonces una década de vida bohemia en la que se pierde el hilo de sus actividades.
En 1741 conoció a la costurera Antoinette Champion, que no tardó en convertirse en su amante y con la cual se casaría dos años más tarde contra la voluntad de su padre, quien trató de recluirlo en un convento para abortar sus planes. Fue un matrimonio desdichado, marcado por la muerte de los tres primeros hijos en la infancia (sólo sobrevivió la cuarta hija, más tarde autora de la biografía de su padre). En 1745, inició una relación amorosa con Madame de Puisieux, la primera de una serie de amantes que terminaría con Sophie Volland, de la que se enamoró en 1755 y con quien mantuvo un intercambio epistolar que constituye la parte más notable de su correspondencia.
En 1746, la publicación de sus Pensamientos filosóficos, en los que proclama su deísmo naturalista, le acarreó la condena del Parlamento de París. Ese mismo año entró en contacto con el editor Le Breton, quien le encargó la dirección, compartida con D'Alembert, de la Enciclopedia. Durante más de veinte años, Diderot dedicó sus energías a hacer realidad la que fue, sin duda, la obra más emblemática de la Ilustración, a la cual contribuyó con la redacción de más de mil artículos y, sobre todo, con sus esfuerzos por superar las múltiples dificultades con que tropezó el proyecto. En 1749, la aparición de su Carta sobre los ciegos para uso de los que pueden ver le valió ser encarcelado durante un mes en Vincennes por «libertinaje intelectual», a causa del tono escéptico del texto y sus tesis agnósticas; en la cárcel recibió la visita de Rousseau, a quien conocía desde 1742 y que en 1758 acabó por distanciarse de él.